Martedi, 26/01/2021 - Può succedere che dai social si attingano spunti rilevanti di riflessione al riguardo di innumerevoli questioni riguardanti vari aspetti del vivere sociale, come mi è successo di recente andando a leggere un post di un noto blogger, Lorenzo Tosa.
L’argomento di discussione tra i vari commentatori era relativo alla vicenda della sindaca di Peschiera Borromeo (Mi), Caterina Molinari, che aveva segnalato anomalie nel portale di Biosorveglianza della Regione Lombardia, ossia lo strumento che consente ai sindaci di monitorare e attivare azioni efficaci a supporto della popolazione colpita da Covid.
Senonchè l’iniziale confronto si è andato ad infervorare perché si sono contrapposte due fazioni, l’un contro l’altra dialetticamente armate. Direste voi sulla circostanza che da una parte vi fosse chi sosteneva le ragioni della Regione e dall’altra quelle del Governo, al proposito della nota querelle sui dati che avevano portato il secondo a catalogare come zona rossa la Lombardia? La risposta è negativa, perché il motivo del contendere era per così dire poco partitico, in quanto riguardava il termine ingegnera, visto che la sindaca svolge tale professione, e conseguentemente la declinazione al femminile dei termini concernenti i ruoli e le mansioni delle donne.
Per l’ennesima volta ho dovuto constatare che ad avversare l’uso di tale declinazione non fossero tanto gli uomini, ma le molte commentatrici. “Ingegnere e Sindaco.... Detesto le versioni femminili di certi termini”, come ha scritto una di loro, ha costituito per me un campanello d’allarme, cosicchè mi sono domandata come si potesse arrivare ad odiare una parola, solo perché declinata al femminile. Perchè un’avversione di tal genere provenga da una donna, per me è poco chiaro, soprattutto alla luce di una considerazione lapalissiana, ossia le parole servono a definire la realtà e, se ad essere ingegnere è una esponente del sesso femminile, la regola grammaticale certifica che si debba usare ingegnera.
La prof.ssa Cecilia Robustelli (Università di Modena), sul sito dell’Accademia della Crusca, l’istituzione italiana che raccoglie studiosi ed esperti di linguistica e filologia della nostra lingua, nel 2013 ha scritto un testo dal titolo emblematico “Infermiera sì, ingegnera no?”, mettendoci a disposizione le proprie argomentazioni. “Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo”.
Succede, però, che proprio alcune donne siano le prime avversarie del processo linguistico, volto ad un adeguato riconoscimento del proprio ruolo all’interno del consesso sociale. Eppure quel che non si nomina non esiste, potrebbe dire un esperto linguista, così che denegare l’esistenza del termine ingegnera comporterebbe fare sparire le ingegnere che svolgono tale professione. Ad altre commentatrici che ritenevano che tale termine “suonasse male”, perché cacofonico, si potrebbe rispondere con le parole della prof.ssa Stefania Cavagnoli, linguista e docente dell’Università di Roma Tor Vergata. “Se le donne in magistratura non erano ammesse fino al 1963, non c’era nemmeno bisogno di pensare al termine magistrata. Quando nel lessico si inserisce un nuovo vocabolo o si declina al femminile una parola di solito usata al maschile, può esser richiesto un po’ di tempo per abituarcisi”.
Cos’è che allora osta ad assuefarsi all’utilizzo di parole nuove, perché dovrebbe suonare male il termine ingegnera? Potrebbe venirci in aiuto la spiegazione fornita dalla succitata Stefania Cavagnoli, quando scrive “Credo che al fondo ci sia una convinzione radicata nelle donne, in alcune donne, che gli uomini riescano meglio in certe professioni. Conseguenza di un’educazione non attenta al genere, ma anche di continue difficoltà reali nell’ambito del lavoro, pensato al maschile. L’uso adeguato della lingua potrebbe essere un primo passo per modificare gli ambienti professionali. Le donne ci sono, competenti, e si nominano”.
Impegnarsi per la declinazione al femminile delle professioni esercitate dalle donne diventa, quindi, un imperativo categorico se realmente si vuole contrastare il sessismo linguistico, contro cui già nel 1987 Alma Sabatini, saggista, linguista e attivista femminista impegnata in numerose battaglie per i diritti civili. aveva preso posizione. In un piccolo volume, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, scrisse che occorreva prioritariamente (ri)stabilire la “parità fra i sessi”, attraverso il riconoscimento delle differenze di genere. Al linguaggio, difatti, era riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, conseguentemente, anche dell’identità di genere maschile e femminile. La grammatica italiana col tempo ha recepito il messaggio, per così dire, politico attribuito alla declinazione nuova dei ruoli e delle professioni femminili e ha fatto propria la modifica proveniente dal recente uso di tali termini.
A quante, invece, sostengono nei propri commenti che ben altre sono le istanze da portare avanti in nome e per conto delle donne italiane, quali ad esempio la parità di retribuzione, potrebbe replicarsi che, per approntare le opportune innovazioni normative in qualsiasi ambito ove sussista disparità di genere, occorra modificare innanzitutto la cultura che vede le donne in un ruolo non eguale. E, per ritornare al tema oggetto del confronto sui social, mi ritornano alla mente le parole della prof.ssa Cecilia Robustelli, “Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche”. Ordunque, onoriamo la grammatica italiana quando ci consente l’uso del termine ingegnera perché, così facendo, rispettiamo anche le donne che esercitano tale professione. Linguisticamente, di certo, ma anche con tale riconoscimento, a carattere culturale, potrà essere più facile che ad un ingegnera vengano riconosciuti i dovuti meriti e le conseguenti eque retribuzioni.
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