Mercoledi, 10/02/2016 - Io non so perché sono femminista. Probabilmente lo sono sempre stata, fin da quando tenevo testa a mio padre, portando avanti discussioni sulla mia libertà di pensare ed agire, sulla mia scelta di essere una piccola donna determinata, sulla mia volontà di non voler scendere a compromessi sociali, sul mio desiderio di seguire strade a volte strane e contorte. Ma mie, tutte mie.
Gli chiedevo sempre di motivare i suoi "no", i suoi "divieti". E, lui, da ottimo padre qual era, mi dava spiegazioni. Sì, mio padre era un ottimo padre. Usava la parola, quella giusta. Era anche autoritario, lo ammetto, ma apprezzava la mia capacità di critica, la mia ribellione, la mia intelligenza. Mi stimava ed io stimavo lui.
Sono cresciuta così, pensando che gli uomini fossero dei tipi tosti con cui aver a che fare. Tipi da rispettare e da cui essere rispettata. Ma sapevo di dover essere pronta a tanti brainstorming della vita, cioè alla c.d. "tempesta dei cervelli", all'incontro-scontro di neuroni, emozioni. Perché donne e uomini (per citare il prof. John Gray), vengono da due pianeti diversi.
In questi giorni, più che mai, mi viene da pensare ai perché, ai motivi della diversità tra donne e uomini nel vivere la vita, nell'affrontare i problemi e risolverli. Il PROBLEM SOLVING. E no, non è una questione solo di carattere individuale, di soggettività: è anche una questione di GENERE, cioè essere "femmine" e essere "maschi", culturalmente parlando. Quel vivere di "rosa e bambole" versus quel vivere di "azzurro e soldatini" che ci accompagna fin da piccol*. E ci rimane dentro, come cultura patriarcale comanda.
Forse per questo mi sento una fuori dagli schemi, una che - per citare Rebecca West - esprime sentimenti diversi da uno zerbino: ho sempre cercato di guardare il mondo a 360°, da sinistra a destra, dall'alto in basso, scontrandomi con mio padre e battendo i piedi per terra reclamando le mie "libertà". E questo percorso, così definito in due parole e in pochi cenni della mia infanzia-adolescenza, non appartiene solo a me. Appartiene a tutte quelle che pensano in modo diverso da uno zerbino.
Ci sono Uomini che condividono questo modo costruttivo e non zerbinesco-patriarcale di essere Donne. E ci sono individui maschi che non lo condividono, non lo comprendono, non lo "accettano" e lo vivono come una SFIDA, un corpo a corpo, una competizione che deve lasciare un solo vincitore.
Secondo questi individui maschi (non uomini), le donne devono rimanere a casa, con compiti di accudimento e cura: non esistono "desiderio di affermazione", "libertà di scelta", "capacità professionali".
Secondo questi individui maschi, le donne sono "femmine" uguali a quelle del mondo animale, viste in funzione di sesso-procreazione: non sono "persone" in senso umano e giuridico, titolari di diritti-doveri.
Secondo questi individui maschi, le donne sono creature deboli da proteggere, tutelare, incapaci di soggettività: non esistono "emancipazione" e "autodeterminazione".
Va tutto bene, fin quando l'individuo maschio titolare del Potere familiare o di coppia, ha come compagna una donna che accetta (ahimè) tutto questo Codice di leggi. Senza "ribellarsi". Tacendo, a testa bassa (non colpevolizzo queste donne, perché spesso sono soggette a violenza psicologica).
Va male, invece, quando l'individuo maschio ha come compagna una donna che fa dell'autodeterminazione il suo stile di vita. Perché lì - per lui- c'è la SFIDA. E di fronte alla COMPETIZIONE, si sa, il maschio deve sfoderare tutta la sua forza, la sua capacità di assoggettamento, la sua potenza virile, il suo essere animale-bruto-predatore-cavernicolo. E più la sfida è grande, più si alza la posta in gioco, più il maschio deve sfoderare le sue armi, la sua cattiveria, la sua violenza.
Pena, la sconfitta. Pena, l'essere uguale-paragonabile ad una... femmina.
E così, spesso, ecco la VIOLENZA DI GENERE.
E così, magari, si arriva ad UCCIDERE. Oppure a dare FUOCO al corpo di una donna.
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