Chiesa, fede, autorità - L'interpretazione dei sacri testi come frutto del clima culturale e delle circostanze storico-politiche
Stefania Friggeri Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2007
Fede: “il credere come veri determinati assunti o concetti, basandosi sull’altrui autorità o su una personale convinzione” (dizionario Garzanti ). Una definizione che specifica bene la differenza fondamentale tra chi nutre la sua fede della altrui autorità e chi ascolta le voci autorevoli ma poi riflette in totale autonomia avendo attenzione alla concretezza dei problemi. E invece, quando è scoppiato l’Aids, molti cattolici non hanno avvertito quanto grave fosse la posizione del Vaticano che promuoveva la castità come solo lecito baluardo contro la pandemia. Poi muore Wojtyla e sul ‘Guardian’ esce un articolo che lo chiama: “il Papa dalle mani sporche di sangue”. E’ vero: in Inghilterra i cattolici sono chiamati papisti ed è certo che Wojtyla non ha mai voluto la morte di nessuno, ma è anche certo che il Papa ha amato meno le creature di Dio delle sue parole, così come ce le hanno trasmesse i testi sacri. La cui interpretazione tuttavia, e non potrebbe essere altrimenti, è sempre influenzata dal clima culturale e dalle circostanze storico-politiche del tempo in cui viene formulata. Ultimo esempio il caso del limbo di cui la Commissione teologica internazionale ha dichiarato l’inesistenza in data 20 aprile 2007. Dove andranno le anime dei grandi cantate da Dante, ma soprattutto quelle dei bimbi non battezzati? perché la vera ragione per cui è stato abbandonato il limbo è meno innocente di come appare: si aprono le porte del cielo ai feti abortiti che sono ormai troppi, martirizzati all’interno di società scristianizzate da leggi come la 194, contro la quale non va trascurato ogni possibile pretesto di diffamazione. Anche la schiavitù (esportata in Sudamerica dai cistianissimi re di Spagna senza obiezioni da parte della Chiesa ufficiale che anzi si interrogava se gli indios avessero l’anima) ci dice come un tempo fossero ammessi dall’alto magistero cattolico costumi e pratiche oggi giudicate inaccettabili ma che allora erano adottate anche all’interno dello Stato della Chiesa. A caso: vietata la sepoltura dei teatranti in terra benedetta, la lettura della Bibbia in italiano, la libera ricerca in campo scientifico; permessa invece la pena di morte, la tortura, la castrazione per ottenere ‘voci bianche’.Veniamo all’oggi, a un tempo cioè in cui l’unica rivoluzione riuscita del ‘900 è stata quella femminile. E invece ancora oggi, a differenza di altre chiese cristiane, la Chiesa cattolica considera normalità quella che invece è patologia: il sacerdozio concesso solo ai maschi celibi. E’ vero “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore…chi è sposato invece delle cose del mondo” (Paolo) ma come non vedere dietro il celibato l’immagine di Eva tentatrice, la paura del sesso come luogo dell’incontrollato, dell’ingovernabile cui si deve rispondere con il freno e l’autodisciplina (castità per i preti, matrimonio finalizzato alla riproduzione per i fedeli)? In realtà la Chiesa primitiva si limitava a prescrivere norme di purificazione e a raccomandare la castità, e solo nel 1074 Gregorio VII, per combattere il nepotismo e la simonia, emanò il primo decreto sul celibato. Sebbene parte del clero si fosse ribellato alla direttiva di Roma, la Chiesa cattolica confermò ripetutamente il decreto, malgrado questa posizione contribuisse ad allontanarla dalle altre chiese cristiane. Anche sul sacerdozio le cose sono sempre state complicate: è documentato che i papi Gelasio (494) e Innocenzo III (1210) intervennero contro l’ammissione di donne “ai sacri altari”; nel 1970 la Chiesa Clandestina Ceca concesse il sacerdozio non solo a maschi sposati ma anche a donne. E tuttavia il divieto di accedere al ‘sacro’ continua tuttora, anche se la Commissione biblica Vaticana, dopo aver studiato il problema su incarico di Paolo VI, ha deciso all’unanimità che il sacerdozio femminile “non trasgredirebbe il piano di Cristo”. Perché mai le suore, invece di rimanere sottomesse, non chiedono almeno le quote rosa?
(30 maggio 2007)
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