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Perché le macerie non seppelliscano i vivi

Perché le macerie non seppelliscano i vivi

Poesia / Miriam De Berardis - Versi cristallini, a tratti epigrafici nella loro solennità, con una loro particolare durezza spezzata, giocata su una musica dissonante

Benassi Luca Domenica, 23/05/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2010

Ci si chiede spesso se la poesia sia utile. Eugenio Montale, nel discorso pronunciato a Stoccolma per il conferimento del premio Nobel, la definì “un’attività inutile ma quasi mai nociva”. Si tratta di un’affermazione che può risultare stretta alle milioni di persone che, con esiti disparati, affidano ai versi amori, dolori, speranze, (dis)illusioni; cercando l’affondo dentro se stessi, alla ricerca della verità di una dimensione feconda dello spirito. A volte la poesia è anche rabbia, urlo, ricerca di giustizia, denuncia. È ciò che si percepisce nel testo “Ridateci l’Aquila” di Miriam De Berardis, qui pubblicato insieme ad alcuni versi tratti dalla raccolta “Così, senza inganni”. Il testo è stato letto in occasione della mostra “Viva L’Aquila”, tenutasi a Teramo nello scorso dicembre 2009 con le artiste Lea Contestabile, Alice Di Sabatino, oltre la stessa De Berardis, e promosso da “noidonne” come testimonianza del terremoto in Abruzzo. Si tende a diffidare di poesie scritte nel fuoco delle prime impressioni su eventi tragici perché spesso si risolvono in retorica, la De Berardis riesce invece a costringere l’emozione in versi cristallini, a tratti epigrafici nella loro solennità, avvicinandoli ai toni di un’accorata preghiera giocata sull’anafora del verbo e sull’insistenza sui luoghi, le vie, le piazze e i palazzi devastati dal sisma.

Più in generale, nei versi della poetessa si ravvisa una vena sincera, sorretta da una versificazione inquieta ed efficace. Non ci sono cadute nel gergo di una liricità scontata, quanto invece una solidità del verso, una sua particolare rocciosità spezzata, giocata su una musica dissonante, lontana dalle movenza della metrica tradizionale. Versi di lunghezze diverse si rompono quando raggiungono una loro unità sintattica, spesso sottolineata da una punteggiatura lì dove un a capo potrebbe renderla superflua. Oppure si frantumano in enjambements costringendo la lettura ad accelerare il battito. La De Berardis, tuttavia, mira a una coerenza sintattica fedele a un’impostazione narrativa, a tratti teatrale e plastica come una sceneggiatura cinematografica o la descrizione di un quadro. Vi è una dimensione visiva, sotterranea e guardinga come l’occhio di una volpe o un animale braccato (“Le volpi vi si aggirano di notte, astute e guardinghe./ C’è un palpitare sotterraneo/ che sfugge all’occhio più attento.”), tesa a osservare e descrivere fatti e situazioni attraverso una lingua piana, quasi senza aggettivi, tagliente e secca. La forza di questa poesia risiede in immagini semplici ed essenziali, in grado di trasfigurare il dettaglio quotidiano in palpito vivo e universale, dove “la quotidianità si traveste/ e il tragico vive in noi.”

Miriam De Berardis è nata nel 1953 a Teramo, dove vive tuttora. Diplomata all’Accademia di Belle Arti (pittura), ha pubblicato poesie su riviste specializzate e nella collana “L’Autore – poeti italiani contemporanei” (Firenze Libri Editore). Con un racconto ha ottenuto una segnalazione di merito al premio Villa Rosa (Teramo). Collabora a “Le pagine del poeta” (Le pagine Editore). Nel 2008 ha pubblicato il racconto breve “L’urlo” (Firenze Libri Editore) e “Così, senza inganni” (Il Filo Editore). Alla scrittura affianca l’attività espositiva in Italia e all’estero.

 





Ridatemi L’Aquila



Ridatemi L’Aquila.

Ridatemi.

Ridatemi L’Aquila e i dintorni.

Ridatemi Collemaggio, San Bernardino,

la Chiesa delle Anime Sante…

Ridatemi le piazze, i vicoli, la luce dei lampioni.

Ridatemi il passato e il futuro.

Ridatemi la neve sui tetti, bianca,

la neve sporca di orme,

di passi, di strade percorse.

Ridatemi il profumo del pane,

il rumore delle saracinesche alzate.

Ridatemi la folla dei mercati,

il caldo dei bar.

Ridatemi i ragazzi alla fermata del tram,

le loro grida, le urla, gli schiamazzi,

il chiacchiericcio.

Ridatemi la voce dei morti,

e i passi dei vivi.

Ridatemi la voce dei morti,

e i passi dei vivi.

Ridatemi.

Fate presto.

Vi scongiuro.

Fate presto.

Presto. Facciamo presto.

Perché le macerie non seppelliscano i vivi.







Giorni



Rispecchiano questi

gesti usuali in uno

spicchio di luna paralizzata

in un lago. Come i nostri

giorni. Cominciano a sapere

di muffa, si fanno paradossali

come una commedia recitata male.

La quotidianità si traveste

e il tragico vive in noi.

Batti due colpi, vai a caccia

di streghe se le parole

sono uscite da laghi

di bocche buttando

la polpa, la parte

migliore

degli anni.







Spari



I campi di grano hanno il respiro

di sempre, nascondono gli stessi nidi.

Ogni tanto qualche uccello prova

a scappare prima del solito.

Sente i richiami dei campi vicini.

Le volpi vi si aggirano di notte, astute e guardinghe.

C’è un palpitare sotterraneo

che sfugge all’occhio più attento.

Dopo i rumori, gli spari,

alcuni spari

squarciano il cielo.







Abbagli



Erano una decina.

Li aveva visti di notte,

aggrappati a un cancello di un giardino,

prima di andare a dormire,

mentre stava accostando la persiana.

Delle urla concitate l’avevano bloccata

e costretta a guardare fuori.

Aveva visto qualcuno

staccarsi dal gruppo e dirigersi

verso gli altri.

Un ragazzo aveva afferrato un bastone

che aveva raccolto

per terra.

Lo afferrava come un’arma, un’ascia

e aveva immaginato la tragedia.

Aveva visto sangue e ferite dappertutto.

Stava per estrarre il cellulare

dalla tasca per telefonare alla polizia.

Ma il bastone che il ragazzo

aveva in mano, invece di colpire,

disegnò l’aria, come una carezza.

Altri ragazzi si avvicinarono

e si misero a danzare, lentamente.

La luce dei lampioni segnava i loro passi,

una luce da palcoscenico

che li spronò a continuare.

Sorrise

quando li guardò per l’ultima volta

mentre chiudeva le persiane,

prima di andare a dormire.

Sorrise

di un simile abbaglio.



(24 maggio 2010)

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