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Perché il raptus è ‘maschio’?

Perché il raptus è ‘maschio’?

Intervista a Gino Zucchini - Dietro la violenza c’è l’angoscia, più o meno consapevole, e una ‘annessione narcisistica’ dell’altro che non ammette autonomie. Una spiegazione ‘tecnica’ che non giustifica l’aggressività

Ciani Rossella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2007

Abbiamo rivolto a Gino Zucchini, medico psichiatra e già presidente della Società Italiana di Psicanalisi, alcune domande circa il raptus. Che cosa è. Come si manifesta. Perché avviene e perché sono soprattutto gli uomini ad esserne colpiti?
“Si, il raptus esiste, nel senso che si tratta, come la stessa parola latina suggerisce, di movimenti aggressivi, più spesso distruttivi, che si impadroniscono della libertà e della coscienza del soggetto fino a “rapirlo” (da cui raptus in latino) in direzione di fatti violentemente e velocemente distruttivi. Si tratta di gesti che sono più veloci del pensiero e che, anzi, inibiscono il pensiero. La persona che “si sveglia”da un raptus usa esprimersi proprio così: ‘non so cosa mi sia accaduto’, ‘è stato più forte di me’. Ciò coinvolge l’inconscio inteso in senso freudiano, come luogo abitato da pensieri, immaginazioni, movimenti e forze delle quali l’io cosciente non sa quasi nulla, salvo avvertirli come una confusa tensione sotterranea.
Il raptus è un alibi? Chi sostiene che si tratti di un alibi è in realtà una persona in preda ad un giudizio moralistico e non tiene conto che in ogni essere umano si annida un’area di potenziale violenza nella quale l’io cosciente può non essere consapevole quasi per nulla. Voglio però precisare: spiegare un fatto psicopatologico non vuole dire giustificarlo. Faccio un esempio: quando la medicina arriva a spiegare il diabete come risultante della insufficienza dell’insulina pancreatica, non “giustifica” il diabete, bensì si mette in condizioni di affrontare una procedura terapeutica per curarlo. Comunque, l’elemento che appare specifico dell’azione impulsiva del raptus è la velocità di esecuzione. Ad un certo punto all’interno di una sequenza aggressiva, anche banale, esplode la violenza improvvisa del raptus, che va al di là di ogni precedente intenzione cosciente del soggetto: sia che si tratti di una intenzione di aggressione sessuale tra adulti, sia che si tratti di una arrabbiatura pedagogica (es. la madre che non sopporta il pianto del bambino, come potrebbe essere accaduto a Cogne). Bisogna chiedersi come si faccia a studiare queste cose. Come si studiano queste cose? In realtà occorre ammettere che l’intima dinamica di un raptus non cade tanto facilmente sotto l’osservazione di un medico psichiatra. Infatti tutto quello che noi possiamo sapere deriva dai racconti fatalmente frammentari, sia di chi ha avuto il raptus, sia della/delle vittime, quando si sono salvate. Per esempio nel fatto di cronaca tra gli ultimi accaduti: il rumeno che ruba la borsetta ad una donna e poi la uccide. Ammesso che si sia trattato di un raptus, chissà quell’uomo quanti altri furti aveva fatto, ma questa volta è andato oltre, è andato comunque oltre. Perché? La risposta la si può avere solo da lui, sul lettino terapeutico.
Lei mi chiede perché prende solo agli uomini. Non è clinicamente esatto affermare questo, ma sicuramente, riflettendo, non posso darle torto. Il perché di questo? Perché gli uomini mediamente hanno più muscoli, e sono consapevoli di averli. Citando una frase che da ragazzo ho purtroppo sentito, Mussolini diceva “la guerra sta all’uomo, come la maternità sta alla donna”. In questa frase è racchiusa la consapevolezza di essere i più muscolari, i più forti. Sono comunque convinto che il meccanismo mentale del raptus attraversi la storia dell’umanità. Già nella antica Grecia Sofocle riporta e mette in scena la tragedia di Aiace. Aiace non riceve in dono le armi di Achille, a cui aspirava moltissimo. Rimane molto contrariato. Va a dormire e nel corso della notte si sveglia si alza e va ad uccidere tutti i troiani per rimpossessarsi delle armi, poi ritorna a riposare. Al mattino, al risveglio, gli chiedono il rendiconto del perché avesse sgozzato tutte le pecore, i cavalli ed i buoi, ma lui ricorda solo il sogno di avere ucciso tutti i soldati per riavere le armi. Per loro fortuna il raptus si era scaricato sugli animali! Lo ripeto: si tratta sempre di azioni più forti ed impulsive e più rapide della coscienza di chi le compie. Non dimentichiamo che stiamo parlando del raptus sull’onda di fatti di cronaca perché c’è un abuso giornalistico e mediatico di questa parola. La si usa spesso a sproposito, senza conoscerne il significato clinico. Invece nella violenza, che è tanto diffusa, c’è una ‘annessione narcisistica’. C’è un processo abbondantemente inconsapevole di questo meccanismo psicologico: tu, amore mio, sei me, non sei dunque come me, ma sei me. Quindi se tu ti vuoi differenziare da me (allontanandoti per esempio con la separazione, etc.) io non sono in grado di sopportarlo, così come non potrei sopportare, ad esempio, che la mia gamba si disarticolasse dal mio corpo. Perciò se non ti ho io non potrà averti nessun altro, non potendo vivere senza di te ti uccido e (talvolta) subito dopo mi uccido così saremo sempre insieme nella morte; uccido anche i figli che sono miei oggetti. Anche qui siamo in presenza di annessione narcisistica. Ricordiamoci Medea.
Il senso comune ha difficoltà ad accettare che dietro la violenza ci sia sempre l’angoscia, più o meno avvertita coscientemente dal soggetto. L’angoscia e la violenza attivano spesso un circolo vizioso in cui la violenza promette di difendere il soggetto dall’angoscia, che viene proiettata sulla vittima. Così la violenza genera l’angoscia e l’angoscia, cattivissima consigliera, può riprodurre la violenza come illusoria difesa. Nel raptus propriamente detto l’azione distruttiva è più veloce della consapevolezza e della memoria del soggetto che agisce. Il meccanismo mentale del raptus, perciò, mentre attacca distruttivamente la vittima, distrugge anche la lucidità e la coscienza del soggetto che agisce. Come fare in un mondo siffatto come l’attuale, pieno di tanta violenza? Sembra che occorra inventare una teoria ed una pratica della pena riparativa, intesa in senso clinico, per effetto della quale si produca un conveniente grado di contenimento della violenza, per arrivare al recupero della consapevolezza dell’angoscia, suscettibile di risolversi nel comune dolore umano, fonte di solidarietà e, perché no, di umana felicità”.

(11 dicembre 2007)

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