Martedi, 19/11/2019 - Patria, Minerva e María Teresa Mirabal erano tre sorelle e vivevano nella Repubblica Domenicana quando questa era governata dalla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. Facevano parte del movimento “14 de Junio”, il cui scopo era rovesciare il regime. Dopo essere state arrestate e rilasciate, il 25 novembre 1960, mentre tornavano da una visita in carcere ai loro mariti, furono rapite da alcuni militari per ordine di Trujillo, furono portate in una piantagione di canna da zucchero, torturate, strangolate, uccise a colpi di bastone e gettate in un burrone dentro la loro auto, per fingere che si trattasse di un incidente. Avevano 36 anni.
La data del 25 novembre fu commemorata per la prima volta nel 1981, in occasione del primo Incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericane e caraibiche. In seguito, il 17 dicembre 1999, l’assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 54/134, con cui istituì la data del 25 novembre come “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, in omaggio alle sorelle Mirabal, con l’obiettivo di sollecitare i governi e tutta la società civile ad organizzare e promuovere attività volte ad aumentare la consapevolezza di questa grave violazione dei diritti umani delle donne.
Non si tratta semplicemente di una giornata di commemorazione in più sul calendario. Si tratta di una presa di coscienza: metà della popolazione del mondo continua a subire violenze perché considerata inferiore all’altra metà della popolazione, perché si ritiene che debba occupare un certo posto, un certo ruolo, diverso da quello occupato dagli uomini. E fintanto che nascere femmine implicherà avere un destino necessariamente diverso da quello dei propri fratelli maschi, la violenza di genere continuerà ad esistere. Per questo non si può parlare di violenza maschile contro le donne solo il 25 novembre, perché le donne subiscono violenza ogni giorno, in ogni parte del mondo, in ogni strato e condizione sociale. Se ne deve parlare sempre, fino a quando tutte le orecchie che abitano la terra non si saranno convinte che si sta parlando di qualcosa di grave che deve e può essere sradicato.
Era il 2009 quando l’artista Elina Chauvet utilizzò per la prima volta le scarpe rosse in un’installazione artistica pubblica (“Zapatos rojos”), per ricordare le donne uccise nella località messicana di Ciudad Juarez. Centinaia, migliaia – non sapremo mai esattamente quante – giovani ragazze sono state rapite, stuprate, mutilate e uccise semplicemente perché donne, nella totale indifferenza dello Stato, che pur di non attribuire queste uccisioni agli uomini, le ha attribuite addirittura al diablo. Ed è proprio in Messico che Marcela Lagarde ha coniato il termine “femminicidio”, che definisce “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte a livello sociale e statale e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all'insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”.
Ogni paio di scarpe rosse rappresenta una storia, una vita, una donna. Quindi il 25 novembre indossiamo qualcosa di rosso – donne e uomini – per dire al resto del mondo che abbiamo capito, che ogni vita ha valore, e deve avere la stessa dignità e rispetto, a prescindere dal genere di appartenenza. Indossiamo qualcosa di rosso per dichiarare al mondo che la violenza maschile contro le donne è sbagliata e deve finire. Perché le bambine di domani possano studiare sui libri di storia che un tempo esisteva la violenza maschile contro le donne, ma che un profondo e globale cambiamento culturale vi ha posto fine.
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