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Perché dobbiamo temere la nuova religione dell’identità di genere

Perché dobbiamo temere la nuova religione dell’identità di genere

"Il femminismo con il suo sguardo critico da sempre sconvolge gli equilibri ..... mai dovrebbe abdicare al suo compito politico di porre la differenza sessuale come lente centrale di osservazione del mondo...."

Martedi, 25/07/2023 - Il 30 dicembre del 2021 fa scrissi su Micromega una sorta di bilancio di fine anno, provando a ragionare di argomenti politici spinosi sui quali lavorare come attiviste, nel dopo covid.Dopo aver letto l’intervista di qualche giorno fa sul Foglio a Paola Concia, attivista femminista, lesbica ed ex parlamentare nel Pd dal 2008 al 2013 mi ha colpito come, senza esserci parlate, Concia abbia toccato in modo analogo alcuni di quegli stessi temi. Scrivevo allora: ”Comincio con chi insiste a modificare la parola femminismo, come se da sola, priva di suffisso, o al singolare, o senza specifiche aggiuntive fosse incompleta e inadeguata. Perché non si parla così spesso di socialismi, comunismi, liberalismi, ma è solo il femminismo che viene nominato plurale? Posto che ovviamente si è libere di pluralizzare a piacere, domando e mi domando: come mai la visione femminista da sola appaia, per talune, obsoleta, e da qualche tempo vi si anteponga la parola trans, o si trovi necessario aggiungere intersezionale? Ho il dubbio, (e spero di sbagliare), che in noi femministe, in quanto donne, (persino le più salde e avvertite), scatti un atavico meccanismo di oblatività compulsiva, che nel caso del termine transfemminismo intenda modificare, non sono certa se in modo davvero inclusivo quanto piuttosto deviante, un percorso politico ancora molto lungo e bisognoso di focalizzazione. Restando sempre sulle parole (che nel 1955 Carlo Levi definiva «pietre», con immagine quanto mai fondativa per chi fa cultura e politica) vorrei fare un cenno al casus belli provocato dall’improvviso disagio nel pronunciare il sostantivo donna (al suo posto sarebbe più corretto, si dice in alcuni ambienti per non offendere, usare la locuzione persona con le mestruazioni, già adottata sulle confezioni di assorbenti in Inghilterra) e alla difficoltà a nominare il femminile, una pratica che la maestra Lidia Menapace diceva di primaria importanza politica perché «essere nominate significa esistere». In alcuni ambienti femministi la soluzione trovata per la scrittura sarebbe quella di usare il segno grafico schwa. Peccato: avevamo da pochissimo iniziato a sessuare il linguaggio, a nominarlo questo femminile così scomodo, a prezzo di fatiche immani sia nelle redazioni giornalistiche così come nella scuola e nelle conversazioni pubbliche, ed ecco che al neutro maschile patriarcale che cancellava le donne si sostituisce una nuova forma di obsolescenza, ma questa volta con la benedizione di alcune femministe e di parte del movimento omosessuale. Come è possibile che l’inclusione e la lotta contro la discriminazione risulti essere strumento di rimozione delle donne e della differenza sessuale da parte di pezzi del movimento femminista? E come è successo che mettere al centro del dibattito politico la prima differenza umana, quella sessuale, attira odio e persino persecuzioni, come nel caso della scrittrice J.K. Rowling?”.

A due anni di distanza, oggi, Concia affronta un nuovo casus belli: questa volta si tratta di un manifesto dei Radicali italiani che invita a firmare a favore di una legge per l’aborto libero, (vecchio cavallo di battaglia dei radicali negli anni ’70) che questo volta diventa legge per tutt*, e, nel nome della ‘trans inclusività’ si suggerisce che nell’articolo 17 comma 2 della attuale legge 194 la parola “donna” venga sostituita con il termine “persona gestante”. “Lo schema mentale è sempre quello”, dice Concia nell’intervista, eliminare la donna. La rivista Lancet, quasi due anni fa, definì le donne corpi con vagina. Ma non ricordo che qualcuno abbia mai descritto l’uomo corpo con scroto”.

Concia non vive in Italia, e in Europa la situazione del conflitto nel mondo femminista a proposito del cosiddetto linguaggio inclusivo, che si trascina dietro anche temi come la gpa e la libertà di prostituirsi è pesante: dell’Inghilterra si è detto, e grazie ai webinar organizzati da qualche mese dal movimento WDI (Women's Declaration International) c’è allarme e grande attenzione a quello che sta avvenendo, soprattutto in alcune università, dove docenti e studiose femministe che criticano la sostituzione della categoria del sesso con l’identità di genere vengono censurate e spesso è loro impedito di partecipare a incontri e dibattiti, in Francia, Germania, Belgio, per non parlare della Spagna e, fuori dai confini Europei, negli Usa e in Canada.

Vale la pena di leggere la Dichiarazione dei diritti delle donne basati sul sesso e di riflettere sul mantra dell’inclusione così come si sta delineando. Se, tornando al senso profondo delle parole e al loro mettere al mondo il mondo, ci soffermiamo sul verbo includere e sulla sua radice, troviamo questo: chiudere dentro. Non dubito che molte delle amiche e compagne di strada che in ottima fede vogliono spezzare le catene dell’oppressione, del pregiudizio e degli stereotipi sessisti abbiano a cuore la libertà e la liberazione dagli orribili vincoli dentro i quali la cultura patriarcale opprime donne e uomini. Ma il sempre più pericoloso (e non certo nuovo) meccanismo di cancellazione delle donne con la presunta inclusività di segni e simboli che estromettono il femminile del mondo dal linguaggio (e quindi dalla realtà) dovrebbe farci paura allo stesso modo in cui temiamo le destre radicali e i fondamentalismi religiosi che avanzano nel mondo, spesso grazie anche al relativismo culturale caro ad una parte della sinistra.
Il femminismo, con il suo sguardo critico fondamentale, da sempre apre, illumina, sconvolge gli equilibri e rimodula in modo non violento visioni e pratiche collettive: mai dovrebbe rinchiudere e abdicare al suo compito politico, ovvero quello di porre la differenza sessuale come lente centrale di osservazione del mondo.
Oggi il rischio è quello di auto cancellare in forma simbolica, e quindi anche concreta, l’esistenza politica di oltre la metà del mondo.


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