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 Perché ci servono le statue e i simboli che evocano - di Monica Lanfranco e Nadia Somma

Perché ci servono le statue e i simboli che evocano - di Monica Lanfranco e Nadia Somma

"Rimuovere le statue, imbrattarle o distruggerle è un errore pericoloso e una pratica nociva...". Ecco perché...

Martedi, 16/06/2020 - Perché secondo noi chiedere di rimuovere le statue, o imbrattarle, o distruggerle, sebbene si comprenda il potente sollievo immediato, ma effimero, dell’azione catartica demolitiva è un errore pericoloso e una pratica nociva?
Per diversi motivi, che proviamo a enumerare per condividere il disagio che ci coglie nel vedere un dibattito pubblico che di recente, a partire dalla vicenda di Indro Montanelli, vede in campo solo voci maschili che ci sembra fatichino a cogliere alcuni nodi del problema riducendo tutto ad un confronto pro o contro Montanelli.
La querelle sulla rimozione della statua di Indro Montanelli posta dai Sentinelli di Milano non ci appassiona oggi come non ci appassionò due anni fa, quando alcune femministe di Nudm –Non una di meno gettarono vernice rosa sulla statua posta nei giardini di Milano a pochi passi dal luogo dove venne gambizzato dalle Brigate Rosse. Da qualche giorno la questione della rimozione della statua è tornata al centro di polemiche dopo le proteste per la morte di George Floyd e l’ondata iconoclasta contro monarchi o colonizzatori che ne è seguita, ha attraversato gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Belgio con l’abbattimento di statue tra le quali quella di Winston Churchill a Londra, su cui è stata apposta la scritta “razzista” mentre in Italia I Sentinelli hanno chiesto al sindaco di Milano di rimuovere la statua di Montanelli, sotto accusa per una testimonianza rilasciata durante una trasmissione televisiva: L’ora della verità, nel 1969.
Intervistato da Ganni Bisicah, Montanelli ricordò l’invasione dell’Etiopia e l’acquisto di una sposa 12enne, Destà, da lui definita con parole difficili da ascoltare, come un ‘animalino docile’, poi ceduta ad un suo attendente. Durante la stessa intervista, Elvira Banotti, femminista di origine eritrea, gli rinfacció di aver commesso uno stupro nei confronti di una 12enne e gli rivolse quell’accusa seduta tra il pubblico ai margini della scena. La sua domanda fu: «In Europa si direbbe che lei ha violentato una bambina di 12 anni, quali differenze crede che esistano di tipo biologico o psicologico in una bambina africana? Queste parole colpirono con forza Montanelli che forse per la prima e unica volta nella sua vita, durante un confronto pubblico, rimase senza argomenti, disorientato dall’accusa di stupro, e imbarazzato perché la narrazione compiaciuta fatta pochi minuti prima durante una conversazione dai toni complici e goliardici tra uomini lo aveva messo a nudo.
La vicenda di Montanelli si iscrive in una Storia collettiva, quella dell’esercizio del potere e del dominio maschile sui corpi delle donne e sui corpi di uomini e popoli, vinti e sottomessi, privati di terre, identità e risorse, un dominio che è stato possibile esercitare attraverso duepratichecostanti di de-umanizzazione: il sessismo e il razzismo.
Quello che Montanelli narra nel lontano 1969 non riguarda solo la storia della colonizzazione e dell’invasione dell’Etiopia, e tantomeno la vicenda può essere archiviata come un accidente che appartiene a “consuetudini odiose ma considerate normali all’epoca” come scrive oggi Gad Lerner sul Fatto quotidiano nel botta e riposta con Marco Travaglio.
L’avvocato Andrea Coffari, presidente dell’associazione Movimento per l’Infanzia ha ricordato in un post su facebook che anche in Italia l’articolo 242, in vigore nel Regno delle due Sicilie, permetteva i matrimoni con bambine; la legittimazione dello stupro è una storia recente tutta italiana, perché fino al 1967 si poteva cancellare il reato, (considerato però solo come atto immorale), con un bel matrimonio.
Questo avveniva nel passato, ma oggi il turismo sessuale nel mondo, del quale ricordiamo gli italiani sono tra i maggiori fruitori europei, vede coinvolte migliaia di bambine comprate da insospettabili padri di famiglia e bravi cittadini e nelle nostre strade milioni di uomini comprano, senza domande, corpi di donne e bambine che provengono dall’Africa, proprio dalle terre che furono colonizzate mentre nelle nostre campagne, forse sotto i nostri occhi, ci sono nuove schiavitù di uomini e donne alle quali spetta anche la schiavitù sessuale, come quella delle braccianti rumene. Nel 2020 nelle teocrazie islamiche i matrimoni combinati tra fanciulle minorenni e uomini adulti sono legali, e la vicina Turchia di Erdogan, che vuole entrare in Europa, ha recentemente legittimato i matrimoni con bambine di 9 anni.
Perché, allora, distruggere statue non ha senso? Perché cancellando le vestigia, vogliamo rabbiosamente cancellare quello che fa male, nell’illusione di avere vinto sul male, mentre il male è ancora tra noi. Distruggere una vestigia non la cancella, ma rimuove, questo sì, dalla nostra vista qualcosa che ci fa stare scomode, ne riduce il fastidio e ci colloca in un fasullo confort dello sguardo, esteriore ed interiore, che agevola la rimozione e quindi ci allontana dall’affrontare il problema.
Pensiamo invece che quello ‘stare scomode e scomodi’ sia la chiave per aiutarci a non cadere nell’errore fatale di dimenticare che il sessismo, il razzismo e la violenza non sono lontani ricordi, ma la realtà purtroppo ancora viva e palpitante sul pianeta
A rinforzo della utilità delle vestigia vorremmo ricordare che esistono nel mondo associazioni femministe, come Il Mediterranea nwomen fund, che organizzano visite in alcune città ai monumenti che raffigurano le donne protagoniste della storia dei diritti. Dovremmo usare lo stesso criterio per accostarci alle statue di sovrani, generali, dittatori per intraprendere l’attraversamento doloroso e scomodo di una storia antica che incide e riscrive la nostra quotidianità, ripete le stesse dinamiche di potere e dominio e violenza per riflettere sulle relazioni feroci, unilaterali e ingiuste che si instaurano tra esseri umani e sulle visioni che le rendono possibili.

di Monica Lanfranco e Nadia Somma


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