Per un'antropologia poetica contemporanea
Viaggio nel Museo dell'Uomo di Plinio Perilli
Forse io da sempre, disteso, attendo di nascermi:
uomo, corpo già grande come un eroe del Nulla,
atleta d’ogni giorno: e troverò forza, materia,
proprio da questo fango, fino a mutarlo in oro …
Freme la coscia del sangue che presto m’avverrà,
come avvengono gli occhi, le mani che tuttora
confondono pugni e dita, e labbra che non parlano.
Così Plinio Perilli, in “Adamo disteso” - un poemetto ispirato ad un’opera dello scultore Manzù -, si fa poeta del risveglio e della vita, che nell’arte e nella natura rifiorisce in parola. E questo testo apre la nuova raccolta di poesie e poemetti intitolata significativamente “Museo dell’uomo”, appena editato da Zona, con una pregevole nota di Giulio Ferroni.
Il titolo è adattissimo a definire l’antropologia poetica di un autore, da sempre interessato a collocare l’orologio del cuore nel Tempo della storia e della natura, in nome di un dono poetico arioso, scenico e psicologico (spesso quasi filmico). C’è sempre un innato bisogno di fiorire, nello stile e nell’animus del nostro poeta. Dai versi in ricordo del padre Ivo, uomo di cinema, e non a caso intitolati “Padre rinatomi”, o alla madre Lia Corelli, attrice; ma oltre ai lari familiari, il bisogno di una rinascenza: e Perilli la delinea nei versi per “Italina”, o per Donatella Colasanti, “Dall’Ade alla luce”; così come in vari passaggi di sezioni intese a documentare momenti collettivi della Storia d’ Italia. Citiamo almeno “Patria delle patrie”, o “Dentro il paesaggio”, che s’apre con un inno-auspicio di sguardi a sentire con gli occhi la necessità della speranza: come anche appare ne “Il fiorire di tutto”, versi composti in viaggio, nella primavera 2008, tra Roma e Pescara.
Esemplari in questa ricerca testuale della significazione e dell’antropologia poetica di Perilli, in una chiave spiccatamente contemporanea, appaiono in aura antifrastica, per Zanzotto, proprio le considerazioni lirico emotive di “Dentro il paesaggio”:
Con l’uomo non ci parlo/ se e quando non ascolta. Guardavo/ oggi il cielo svegliato tutto grigio… / Ma lievitava, suffragava luce/ sino ad un credo d’azzurro. //
Parlo con la natura, e penso / d’ascoltarla….
Guardo e capisco / il cuore che vige in tutto il mondo.//
Si allarga, s’irraggia quest’abbraccio/ che ci specchia, che per nude parole/ nomina Luce, rinsalda ogni respiro, / ama e richiama l’anima. Dietro, / dentro ogni paesaggio, lì c’è l’uomo.
Plinio Perilli poeta vero, voce di un corale bisogno di raccontare in versi, di farsi interprete di un bosco d’emozioni nella congiuntura di un tempo sempre più de-umanizzato e a rischio di estinzione, va ad intendersi piuttosto come vertebra amante, alfiere d’una vita d’affetti e di natura, ma in pericolo oggi costante di dissolvimento.
Museo dell’Uomo va dunque letto, e percorso, come un viaggio di antropologia poetica, anche nel quadro delle cifre e categorie poetiche della contemporaneità. Voce ex corde: quindi discorde… e coraggiosa quella di Perilli, sempre interprete di un melos poetico e poematico, volto come ricostruzione archeologica e futuribile di una sostanza chiamata cuore. Egli lo dimostra anche nei tanti versi dedicati alla sua compagna, Nina Maroccolo, amata e di cui ritesse, in canto sofferto, la vicenda di una malattia che diviene coscienza di strazio, ma anche cura e pazienza, con il dono della poesia (in virtù dell’allargarsi al generale campo dell’antropologia del dolore).
E così ne “L’infinito a pezzi” il verso si fa struggente ricordo, disperata sete di una speranza di luce colta nell’ombra di una sofferenza vera e simbolica, di un tutto che frana e va ricostruito.
Solo dunque ci resta e ci è possibile/ un infinito a frammenti, mere ipotesi, / scorie dell’Altissimo sdoganate, cattivate / in poesia. Il resto è exemplum teologico, / o strategia filosofica, il che è peggio…
E la poesia formalmente si chiude sì, ma per riaprirsi negli occhi di lei…
Poi lo scordavo, riaprivo gli occhi fino ai tuoi.
Sempre dunque offriamo in questa disanima dell’opera, ultima e continua dell’autore, prove di quella sete di rinascita che caratterizza l’antropologia poetica di Perilli, che davvero nel poemetto e nelle composizioni ad ampia orchestrazione poetica e corale, dà i frutti migliori di sé.
La cifra più autentica e struggente di Perilli è infatti l’essere interprete estroso d’un canto lungo che racconta, regista e sceneggiatore a un tempo, come sopra accennato, di un modus poetandi affabulatorio e cinematografico: il che, del resto, appariva già evidente sin dalle prime opere della cosiddetta trilogia della giovinezza, composte tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso. E così, la vocazione cine-poetica di Perilli, figlio d’arte, si è espressa in sequenze successive; da L’Amore visto dall’alto ai “racconti in versi” di Ragazze italiane, e, a chiudere, quelle Preghiere d’un laico, esempio di un cammino intenso nelle geografie dello spirito, e nella fatica di una fede in dialogo concreto, e quotidiano, con la vita (ricordiamo le terzine, le assonanze cadenzate dei Petali in luce).
Queste opere originali nel panorama poetico italiano e variamente premiate, lo hanno imposto come poeta ed indagatore lirico di un’antropologia poetica, rivelandone doti psicologiche e stilistiche di cronista appassionato come di un lungo film di emozioni. Perilli vive e si fa autore d’un ampio diario sentimentale, specchio di inquietudini, di vibrante umanità, in cui privato e pubblico si offrono in dissolvenza, per restituire pagine di uno splendido lungometraggio amoroso di azzurra e pensosa sensualità, risolto in un credo panteistico, fatto di colori e corporeità, ma sentiti nella totalità-tonalità di una rinascita spirituale.
Parola sinestetica e bruniana, dunque, quella di Perilli, che anche in questo suo nuovo libro, Museo dell’Uomo, riprende testi di un amplissimo arco temporale, dal 1994 al 2020 (il precedente “canzoniere d’Amore”, Gli Amanti in Volo, andava dal 1998 al 2013), con forza visiva, etica, sentendo la scelta stilistica e la parola, come prisma di emozioni del cuore, in viaggio nelle stagioni della vita e della storia. Estraneo ad ogni eco ermetica e cerebrale, l’autore sente invece primario l’impegno del cuore che fa da mentore alle vicende umane, private e collettive. E ciò lo ribadisce come autenticità di scrittura e di analisi in molti percorsi della poesia contemporanea, come evidenzia in una sentita, articolata nota autobiografica e di critica poetica, in calce al volume.
La linfa di questo poeta ha sempre bisogno di un orizzonte vasto, d’aggettivi ed intuizioni, copiosità di versi, mirati a donarci, restituirci un delta emozionale, un orizzonte ben oltre il muro delle forme chiuse o troppo artificiose, insomma pensate. E non intensamente sentite, vissute!
Il maglio, per il nostro Perilli, è dato spesso dalla intuizione, e percezione di una pulsazione addirittura sensoriale, non certo da un calibrato cartesianesimo ritmico, o peggio da un accatastare immagini di realtà anche quotidiana, ma apposte prosaicamente, sine musica: perché la poesia è ritmo, profondo, primordiale battito dell’uomo. E non risorsa intellettualistica, o fredda contemplazione oggettuale.
E ciò resta sempre la cifra, il basso continuo di Perilli, poeta, ma anche antropologo, e psicologo nel mondo, della vita, nelle stagioni dell’essere in proprio o nella scena collettiva, entro il Teatro della Storia, ora raccolta, testimoniata in questo suo nuovo ed antico Museo dell’Uomo.
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