Per una Rai rispettosa delle parole sulle donne. E della grammatica
Nella serie tv Don Matteo la parola 'capitana' non esiste. In un colpo si cancella il femminile, le donne e il contrasto alla violenza di genere. Pessimo lavoro della prima azienda culturale italiana
Mercoledi, 17/01/2018 - Dall’azienda radiotelevisiva pubblica ti aspetteresti che venga offerta un’informazione corretta, anche quando tale mission si espliciti per il tramite di programmi d’intrattenimento.
Il casus belli riguarda la prima puntata della serie Don Matteo, serie talmente seguita da pervenire all’undicesima programmazione. Durante un colloquio tra esponenti delle forze dell’ordine il pubblico ha avuto modo di ascoltare: “Io sono il capitano Anna Olivieri e la parola 'capitano' si usa solo al maschile”, aggiungendo successivamente: “Capitano. La parola capitana non esiste” e offrendo così l’occasione al sottoposto di controbattere: “Non c’è nel vocabolario”.
Fa oltremodo specie che la Rai consenta agli autori affidatari dei suoi programmi di veicolare tali messaggi fortemente diseducativi. Come ha ben spiegato la prof. ssa Cecilia Robustelli, docente presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia: “Sarebbe opportuno sapere che accanto ai sostantivi maschili in -o ci sono quelli femminili in -a, e che la lingua italiana richiede l’uso del genere femminile per riferirsi, indicare, riconoscere le donne. E’ una regoletta, che si impara alle elementari, ma soprattutto si acquisisce prestissimo”. L’ente radiotelevisivo pubblico, invece, stralcia la “regoletta”, addirittura negando che il vocabolario riconosca “capitana” quale termine legittimo. Potrebbe sorgere il dubbio che, al di là di apparire sgrammaticata, la Rai intenda pervenire ad altri obiettivi, se solo considerassimo che nel 2011 aveva assunto ben tredici impegni nel Contratto di servizio pubblico radiotelevisivo per una rappresentazione moderna, plurale e non stereotipata delle donne. Già nel 2016 era pervenuta alla Commissione parlamentare di Vigilanza una segnalazione sul mancato rispetto di suddetti obblighi da parte dell’Appello Donne e Media, un network di migliaia di persone, tra singoli, associazioni e rappresentanze del mondo della cultura e della ricerca scientifica che si sono mobilitate in rete a partire dal 2009 per il superamento degli stereotipi di genere nei media.
Veniva segnalato come nella televisione pubblica mancasse “una linea editoriale innovativa, quel nuovo corso volto ad una programmazione rispettosa della dignità umana, culturale e professionale delle donne, su cui la Rai si era impegnata sin dal 2011”. Un nuovo corso necessitato anche dal particolare non irrilevante per il quale in Italia dal 2014 vige la Convenzione di Istanbul, che “sancisce con chiarezza il ruolo dirimente che i mezzi di comunicazione hanno per contrastare gli stereotipi, la violenza sulle donne, le disparità”(Appello Donne e Media). Diventa coerentemente necessario, a dipanare le nebbie fitte che in tal senso avvolgono i palinsesti radiotelevisivi pubblici, che intervenga il Governo per il tramite del Ministro dello Sviluppo Economico, titolato a stipulare il Contratto nazionale di servizio con la Rai. Occorre difatti richiamare l’azienda radiotelevisiva pubblica al rispetto degli obblighi esplicitati nel suindicato contratto ed indurla ad operare un maggiore e migliore controllo “su quanti scrivono, producono, conducono, informano, invitano esperti ed opinion maker o sono addetti alla regia” affinchè tutti costoro rispettino “gli obblighi sottoscritti dalla loro azienda come quelli per raggiungere l’obiettivo di una rappresentazione plurale e non stereotipata delle donne”(Appello Donne e Media).
Se, quindi, nella realtà di tutti i giorni esistono donne che svolgono il ruolo di capitana, tale termine non dovrebbe in alcun modo essere osteggiato da chi come la Rai è anche deputata per la propria mission a veicolare culturalmente il superamento degli stereotipi di genere. Evitando nella maniera più categorica di consentire che in un suo programma si confuti la legittimità di “capitana” come locuzione grammaticalmente corretta, l’azienda radiotelevisiva pubblica onorerebbe anche il proprio ruolo, che in tanto può essere esercitato in quanto i contribuenti italiani pagano il correlato canone. Stefania Spanò, una vignettista impegnata con il personaggio Anarkikka sui temi più pregnanti per le donne italiane, ha colto immediatamente lo spunto per produrre un elaborato grafico connotato da una frase estremamente chiara ed esplicativa: Le parole al femminile esistono perché le donne esistono. Ebbene, La Rai non avalli il contrario e riconosca, quale azienda culturale, il lento lavoro trentennale di insigni esperti di linguistica, finalizzato al riconoscimento della declinazione al femminile dei ruoli in ambito lavorativo. Veicolare questo mutamento necessitato dalla realtà perché diventi cambiamento culturale sta a chiunque intenda riconoscere alle donne la giusta rappresentazione verbale delle proprie professioni e, soprattutto, alle istituzioni pubbliche come la Rai.
All’amministratore della pagina fb Don Matteo, che in un commento ha tentato di rintuzzare le critiche scrivendo: Se il vostro scopo nella vita di voi insegnanti linguisti è andare a segnalare questa 'scemenza' alla Rai allora un consiglio da un ignorantona studiare non vi è servito proprio a nulla” c’è controbattere con un’unica replica. Non ci preoccupa che non abbiate studiato voi, che negate l’esistenza del termine capitana, ma ci allarma, e non poco, che l’azienda radiotelevisiva pubblica, fruitrice dei soldi dei contribuenti, paghi autori che dicano queste falsità, condannandosi colposamente ad avallarle e divulgarle.
Lascia un Commento