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Per rimuovere le discriminazioni sul lavoro

Per rimuovere le discriminazioni sul lavoro

Consigliere di parità/ Azioni positive - La relazione inviata al Ministero del Lavoro scritta dalle consigliere del gruppo

Redazione Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2004

Le Azioni Positive sono uno dei pilastri della legge sulla parità di opportunità tra i generi. Un pilastro che, pur dotato di scarse risorse finanziarie, ha dimostrato notevole vitalità richiamando l’interesse delle associazioni femminili e delle parti sociali, almeno di quelle rappresentate nel Comitato nazionale di parità.
Il finanziamento ha contribuito a far decollare la progettazione e l’attuazione di azioni positive. Purtroppo, ancora adesso però, nel nostro Paese, le azioni positive attuate nelle imprese e nelle organizzazioni sono quasi esclusivamente quelle finanziate dal Comitato nazionale di parità.
Un tempo sarebbe stato opportuno introdurre un distinguo, distinguere cioè le azioni positive liberamente assunte dal soggetto proponente, sia pure correlate al sostegno finanziario, da quelle imposte dalla legislazione o dalla contrattazione collettiva. La distinzione, necessaria sul piano teorico, non sembra avere, almeno al momento, utilità concreta. Per quanto riguarda la contrattazione collettiva di primo e di secondo livello, tutte le analisi recenti convergono nel rilevare la sostanziale caduta di interesse per le azioni positive. Per quanto riguarda la disciplina legislativa contenuta in testi diversi dalla 125 del 1991, si può arrivare ad affermare che non si riscontrano casi di attuazione.
Mancano, quasi completamente, esperienze che non coincidano con quelle finanziate. Questa situazione trova conferma sul versante delle pubbliche amministrazioni, dove i piani triennali di azioni positive, pur essendo obbligatori, non hanno trovato che sporadiche presenze. Questa situazione trova conferma anche sul versante delle azioni positive giudizialmente imposte.
Che il problema sia inscritto nella fonte legale e nella sua ‘promessa di finanziamento’ è ipotesi suggestiva, ma non accoglibile. Anche in assenza di questa promessa, come nel caso delle pubbliche amministrazioni, il risultato, almeno finora, non cambia.
Questo non può che significare che si tratta soprattutto di una questione culturale. L’auspicio è che con la riforma del 2000, non a caso rivolta per la parte relativa alle azioni positive soprattutto a sciogliere alcune delle difficoltà empiricamente riscontrate, si riesca ad invertire la tendenza e a rivitalizzare in pieno queste misure che pure hanno superato la fase del rodaggio e sono entrate in quella di un consolidato meccanismo di funzionamento, ben più efficiente e tempestivo dei primissimi tempi.
Per la parte relativa alle azioni positive, la riforma apportata nel 2000 alla legge n. 125 del 1991 interviene soprattutto sul lato dei soggetti ammessi al finanziamento dei progetti e su quello della preordinazione annuale degli interventi alle linee guida del programma-obiettivo.
La legge n. 125 del 1991, come è noto, non detta la nozione giuridica di azione positiva, ma preferisce individuare l’area degli obiettivi da raggiungere, oltre a quello primario o cardine dello sviluppo dell’occupazione femminile, posto nella disposizione di apertura. Il comma 2 dell’articolo 1 individua cinque sottogruppi (lettere dalla a alla e) che vanno dalla eliminazione delle disparità di fatto nella formazione e nel lavoro, alla promozione della diversificazione delle scelte professionali, al superamento delle discriminazioni, alla conciliazione e redistribuzione dei ruoli familiari e professionali.
La legge, oltre a individuare gli scopi, stabilisce che le azioni positive possano essere promosse da una serie ampia di soggetti (art. 1, comma 3); che i progetti di azioni positive possano essere presentati solo da una parte di questi o da altri, al fine di ottenere il finanziamento totale o parziale (art. 2, comma 1); che i piani di azioni positive debbano essere obbligatoriamente adottati dalle pubbliche amministrazioni, senza accesso a incentivi finanziari (art. 2, comma 6); che siano adottati piani – ora progetti – di azioni positive per la rimozione delle discriminazioni (art. 6, comma 1, lettera g, ma anche art. 4, comma 7).
Le modifiche apportate dal decreto legislativo n. 196 del 2000 non incidono sulla nozione di azione positiva, essendo rivolte essenzialmente ad ampliare la platea dei soggetti che possono accedere al finanziamento, a destinare annualmente le risorse a progetti orientati verso determinati obiettivi prestabiliti, a coordinare la disciplina previgente. Le modifiche risultano pertanto significative, ma soprattutto strumentali ad una migliore organizzazione interna della disciplina, soprattutto per la parte relativa al finanziamento.
La riforma si è concentrata in particolare su due lati della questione: quello dell’ampliamento della platea dei soggetti ammessi al finanziamento cui fa da contraltare la scelta, esercitata annualmente e con ampio margine di preavviso, di privilegiare alcune - e solo alcune - tipologie di azioni positive, con conseguente possibile limitazione transitoria sia dei destinatari del finanziamento, sia dei destinatari delle azioni.
Per quanto riguarda l’estensione della platea dei soggetti finanziabili. Nella versione originaria, i soggetti ammessi al finanziamento erano, anche in combinazione tra loro, esclusivamente: “le imprese, anche in forma cooperativa, i loro consorzi, gli enti pubblici economici, le associazioni sindacali dei lavoratori e i centri di formazione professionale” (art. 2, comma 1). La riforma ha provveduto a includere anche i “datori di lavoro pubblici” e a utilizzare il più generico termine di “organizzazioni sindacali nazionali e territoriali”, intendendo per queste seconde non più solo quelle dei lavoratori ma anche quelle dei datori di lavoro. Nel primo caso si è sanata una esclusione non più giustificabile alla luce della sopravvenuta riforma della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni; nel secondo caso a una pregressa ingiustificata disparità di trattamento.
Non smentisce l’assunto la terza apertura realizzata in questo ambito: quella che prevede l’ammissione tra i soggetti finanziabili anche, genericamente, delle “associazioni”, di tutte le associazioni; ma porta a concludere che, a seguito della riforma, si è rinunciato al modello della individuazione selettiva stabile e fissa dei soggetti ammessi al finanziamento. Sono pochissimi gli esclusi, e tra questi le consigliere di parità, proprio per il ruolo che rivestono: di promozione e di controllo. Su questo il gruppo di lavoro ha giustamente concentrato i suoi richiami.
Con la riforma, le consigliere hanno ricevuto ancora più significative competenze per quanto riguarda i piani di azioni positive che le pubbliche amministrazioni devono adottare, con durata triennale, calcolata a partire dal momento della loro adozione. In carenza di piano di azioni positive, l’amministrazione incorre nel blocco delle assunzioni. Come è noto, questa sanzione, allo stato attuale, è inefficace, dato che il blocco è stato imposto in generale nel settore.
È importante, nel frattempo, concordare e ottenere una circolare esplicativa da parte del Ministero della funzione pubblica, rivolta anche a chiarire i vincoli che le amministrazioni hanno nel momento dell’assunzione e della promozione di personale, nei livelli in cui le donne sono sotto-rappresentate. La circolare è importante perché potrà contribuire a diffondere la conoscenza stessa di questo pacchetto di disposizioni.
La rete delle consigliere dovrebbe diventare il centro di una clessidra, ciascuna consigliera portando al centro interrogativi, soluzioni ed esperienze che potranno essere poi diffuse a tutta la base.

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