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Pensiero politico e genere dall’Ottocento al Novecento - di Elena Luviso

Pensiero politico e genere dall’Ottocento al Novecento - di Elena Luviso

Recensione di 'Pensiero politico e genere dall’Ottocento al Novecento' a cura di Fiorenza Taricone (Università di Cassino e del Lazio Meridionale) e Rossella Bufano (Università del Salento)

Venerdi, 26/04/2013 - Pensiero politico e genere dall’Ottocento al Novecento



Pensiero politico e genere dall’Ottocento al Novecento (Amaltea, 2012) è un’opera curata da Fiorenza Taricone (Università di Cassino e del Lazio Meridionale) e da Rossella Bufano (Università del Salento) autrici anche di due saggi presenti all’interno, rispettivamente “Politica e società nel pensiero di Daniel Stern” e “L’influenza di Mazzini sul periodico ‘La Donna’ (1868-1891)”. Con prefazione di Leonardo La Puma (Università del Salento). Le due studiose, in particolare la Taricone, coltivano da diversi anni gli studi di genere cercando di valorizzare e riscoprire un pensiero politico al femminile.



Il volume raccoglie gli interventi di altre studiose che da tempo si adoperano per ridare visibilità al ruolo rivestito dalle donne nella storia politica e delle idee: Ginevra Conti Odorisio (“Harriet Martineau tra economia e politica”), Marisa Forcina (“Segni di una cittadinanza femminile: partecipare, includere, intraprendere”), Rosanna Basso (“Donne del Sud tra tradizione ed emancipazione”), Laura Pisano (“L’editoria femminile come impegno civile e politico: le donne del giornalismo italiano”), Christiane Veauvy (“Le donne e la costruzione dello Stato-nazione in Italia e in Francia 1789-1860”). A questi si aggiungono i contribuiti di giovani ricercatrici e ricercatori che a questi temi stanno dedicando la loro energia e il loro entusiasmo come Gianna Proia (“Patriottismo ed emancipazione femminile in Cristina di Belgiojoso”), Giulia Mancino (“Il dibattito sulla teoria della differenza sessuale di Carol Gilligan”), Massimo Ciullo (“L’inferiorità dimostrata. Positivismo scientista vs. emancipazionismo”).



A dispetto di quanto la cultura generale e la formazione (dalla scuola dell’obbligo all’università) fanno pensare, cioè che l’azione e la riflessione delle donne siano state sporadiche nella storia, questo libro dimostra che sono tantissime le figure femminili che si sono misurate su temi quali la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, l’emancipazione, al pari dei colleghi uomini, ma con una prospettiva che oggi si è solititi definire “differenza di genere”. Arricchendo la discussione dell’epoca e, spesso, esercitando una forte influenza sul processo storico o sulle scelte parlamentari del proprio paese.



Olympe de Gouges, Eleonora de Fonseca Pimentel, Harriet Martineau, Daniel Stern, Cristina di Belgiojoso, Gualberta Alaide Beccari, Oronzina Tanzarella, Grazia Deledda, tanti i nomi che da fine ’700 fino al ’900 vengono menzionati nel testo. Donne che a vario titolo, patriote, giornaliste, scrittrici, insegnanti, contribuiscono alla formazione o alla crescita dello stato-nazione attraverso l’esercizio di una cittadinanza che si fonda sulle relazioni e sulla circolazione delle idee. E tra le relazioni contano molto anche quelle tra generi. Infatti, sulla concezione della donna e sulla battaglia contro una cultura dominante cattolica e positivista (soprattutto nel corso dell’Ottocento) che predicano la sottomissione e l’inferiorità femminile, esercita una grande influenza Mazzini. Come sottolinea La Puma nella prefazione del libro: «[...] alfiere e artefice in grande stile dell’avvio del lungo processo dell’emancipazione femminile», il Genovese denuncia che l’apparente inferiorità intellettuale della donna dipende unicamente da una educazione disuguale e da una perenne oppressione di leggi e sostiene che «bisogna rispettare la donna, cercando in essa non solo conforto, ma anche forza, ispirazione, consapevolezza e crescita delle facoltà intellettuali e morali dell’uomo».  Elena Luviso



Di seguito si riportano brevi stralci dei saggi.

«L’idea della Martineau, per certi versi geniale, fu quella di illustrare i principi dell’economia politica inserendoli in una trama letteraria accessibile a tutti. Le ragioni del suo successo furono molteplici. I racconti erano scritti con notevoli abilità letterarie, presentavano situazioni nelle quali molti potevano identificarsi, inserivano l’economia politica nella vita quotidiana. Come J. Stuart Mill mise bene in luce l’economia politica era ormai al centro delle preoccupazioni e degli interessi della società vittoriana e costituiva il nucleo del radicalismo politico e filosofico.

Negli anni Trenta, fortemente sentita dall’opinione pubblica, venne attuata in Inghilterra una politica di riforme in campo politico (riforma elettorale del 1832), ed economico (legge sulle fabbriche del 1833 e legge sui poveri del 1834). Era quindi comprensibile che vi fosse un interesse generale verso argomenti ritenuti fondamentali per il benessere e il progresso della società. [...]

La Martineau, fin dalle prime opere tende ad ampliare il concetto dell’interesse individuale considerandolo sempre nei suoi risvolti sociali. La sua concezione dell’individuo è diversa da quella dei liberali classici. L’individuo è sempre considerato come parte di un tutto più che come un essere autonomo dotato di diritti inalienabili. Nelle Illustrations l’impegno per il profitto individuale produceva alla fine il progresso per tutti, l’aumento dell’occupazione e dei salari» (Ginevra Conti Odorisio, “Harriet Martineau tra economia e politica”).



«Nell’Essai sur la liberté, opera insolita per una donna, non essendo intesa come una rivendicazione di libertà di cui il suo sesso non godeva, si approfondiscono grandi temi quali il bene e il male, la giustizia, le relazioni fra esseri umani, il progresso, che vedono come interlocutori gli uomini, talvolta intendendo con il sostantivo l’essere umano nella sua dualità. Non mancano naturalmente osservazioni riferibili solo alle donne, ma sono in genere prive di toni che potremmo definire marcatamente proto-femministi. La femminilità del costrutto è semmai rintracciabile nelle esperienze concrete, come il situare per gli esseri umani l’inizio della conoscenza nel momento della nascita che “si rivela con movimenti automatici, vagiti di pianto, espressione di una sensazione dolorosa causata dal contatto dell’aria che colpisce i suoi organi”. Intimamente convinta dell’efficacia della legge del progresso, estimatrice dei vantaggi recati dall’Illuminismo e dall’89, Daniel Stern riabilita in un certo senso anche il XIX secolo, definendolo grand siècle, perifrasi riservata al Settecento. L’impianto razionalistico del suo pensiero, fortemente debitore delle cosiddette scienze esatte, che nel XVIII secolo conoscono un grande successo, come le teorie newtoniane, è evidente nell’importanza che attribuisce alla conoscenza scientifica; il razionalismo di fondo è impastato anche con riflessioni tipiche del pensiero politico giusnaturalistico e liberale che precede e accompagna l’esistenza di Daniel Stern: l’istinto di conservazione o d’egoismo, alla base di molte delle teorie contrattualistiche, l’istinct d’attrait ou de sympathie, definito anche magnetisme occulte, che rimanda alle teorie benthamiane e la rivalutazione delle passioni, concepito non in chiave fourierista, ma piuttosto in chiave laica, se non anticlericale» (Fiorenza Taricone, “Politica e società nel pensiero di Daniel Stern”).



«Cittadinanza è un’espressione carica di sedimentazioni storiche e sociali, una parola antica, che troviamo già nel mondo greco e che va di pari passo con il termine politica e democrazia. Generalmente letta come dipendente o coincidente con l’apparato dei diritti e, di conseguenza, anche dei doveri del soggetto politico che si è costituito in modo nuovo con la rivoluzione francese, la cittadinanza ha, invece, un significato molto più ricco e più carico di contenuti.

La cittadinanza, infatti, ancor più che motivo di inclusione e di esclusione dei soggetti rispetto a un tessuto di relazioni istituzionali funzionante da tutele, diritti e garanzie giuridiche, svela soprattutto il rapporto tra i soggetti e l’ordine politico sociale in cui le persone sono inserite; funge da banco di prova della possibilità di partecipazione politica e definisce aspettative, desideri e valori di cui sono i soggetti i primi portatori e non le istituzioni o le ideologie o i metodi astratti o le procedure normative.

Dunque, non configurandosi tanto come fruizione dei diritti o privilegi del soggetto politico, quanto come il costituirsi consapevole di tale soggetto, il suo sguardo cosciente in grado di dare consistenza alla comunità politicamente organizzata, la cittadinanza definisce la capacità degli individui di essere presenti nella comunità con sguardo critico e propositivo e con pratiche che traducono il desiderio soggettivo e privato in un modo pubblico di apparire ed essere parte della comunità. Indica quindi la loro capacità di lasciare segni, non di utilizzare o consumare diritti» (Marisa Forcina, “Segni di una cittadinanza femminile: partecipare, includere, intraprendere”).



«Il Sud ha mantenuto per secoli una struttura patriarcale, impostata sul controllo e la sottomissione delle donne, che ha trovato puntello nelle leggi ed è stata riprodotta giorno dopo giorno nell’agire più ordinario. Questo lascito non si è estinto in un sol colpo e non può essere posto in parentesi. Non va, questo sì, assolutizzato.

Il Sud della tradizione, per quanto riconoscibile e perfettamente reale, non è stato un luogo indifferenziato con una geografia piatta e monocorde, tale da non ammettere incrinature e non alimentare spazi gravidi di evoluzioni positive. [...]

L’elemento dirimente che specifica questo scarto lo identifico nella capacità dei soggetti e dei gruppi sociali di investire su se stessi e di modificare in senso positivo i destini tracciati dalla tradizione e i valori ereditati: ovvero con il prodursi, in parallelo con l’emancipazione politica delle donne, della loro emancipazione economica e della loro emancipazione educativa» (Rosanna Basso, “Donne del Sud tra tradizione ed emancipazione”).



«Donne e giornalismo, un aspetto delimitato, e tuttavia vastissimo, dell’attività delle donne nel mondo editoriale.

Sono numerose le ragioni che hanno contribuito allo sviluppo della loro presenza in questo campo: una è stata la possibilità offerta alle donne di svolgere attività intellettuale nell’anonimato, o sotto pseudonimo, e in tempi ‘personali’ che non entravano in contrasto troppo stridente con la vita familiare. Riguardo all’anonimato, va detto che era dovuto a una prassi corrente nel Settecento e nell’Ottocento, che non richiedeva la firma dei propri scritti nemmeno agli uomini; e che accettava volentieri la firma con pseudonimo. Questo dato favorì una attività considerata pubblica, e dunque per le donne riprovevole, non meno di quella di commedianti, musiciste, artiste.

La professione della giornalista è storicamente contraddistinta dall’audacia, dal coraggio, dal desiderio di libertà, dalla volontà di scoprire, di conoscere, forse ancor più che nelle altre attività intellettuali» (Laura Pisano, “L’editoria femminile come impegno civile e politico: le donne del giornalismo italiano”).



«Pensiero e azione non possono essere divisi: il carattere non solo stretto, ma vitale del loro legame si palesa ancor più quando entrano in gioco la politica e il politico delle donne e per le donne. La nostra esperienza, sempre più varia dalla (ri)nascita del femminismo (dagli anni Sessanta in poi), comporta un’attività di remémoration e di rappresentazione del passato, in Italia così come in Francia; ma anche il piacere dell’accesso alla conoscenza della nostra storia, in cui le donne sono rimaste fuori dalla politica ufficiale, ma non sistematicamente dalla cultura e dalla “quête d’une autre politique”, impregnata delle loro sofferenze nascoste. Cristina di Belgiojoso le ha testimoniate anche per noi, donne del XXI secolo, in un modo drammatico. Una citazione dell’articolo che ha pubblicato nella “Nuova Antologia” (1866), lo testimonia in modo sconvolgente: “Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità”» (Christiane Veauvy, “Le donne e la costruzione dello Stato-nazione in Italia e in Francia 1789-1860”)



«Pochi anni dopo la costituzione del Regno d’Italia, sulla scia degli entusiasmi risorgimentali e tra la delusione dei repubblicani e di coloro che rivendicano l’annessione di Roma, il 12 aprile 1868 viene stampato a Padova il primo numero del periodico “La Donna”, fondato dalla mazziniana e positivista Gualberta Alaide Beccari.

È il primo giornale diretto e scritto solo da donne e verrà pubblicato ininterrottamente fino al 1891 con l’intento di contribuire alla formazione della ‘nuova donna italiana’: la ‘madre-cittadina’, una donna emancipata – attraverso l’istruzione, l’indipendenza economica e le riforme legislative – e deputata all’educazione dei nuovi cittadini e al rinnovamento morale dello Stato italiano» (Rossella Bufano, “L’influenza di Mazzini sul periodico ‘La Donna’ 1868-1891”).



«Nell’ultimo decennio del XIX secolo i movimenti per l’emancipazione delle donne raggiungono un radicamento abbastanza stabile e consistente tra le fila dei gruppi più avanzati della democrazia europea e italiana. Solo per fare un esempio, la battaglia per l’identico salario per uomini e donne è un punto irrinunciabile nell’agenda delle principali rivendicazione dei primi partiti socialisti europei. È proprio in questo frangente però che, almeno in Italia, il nascente movimento socialista e democratico subisce una sorta di contaminazione da parte dei corifei dell’ideologia neo-positivista. [...]

Affiancato dal futuro genero Guglielmo Ferrero, Lombroso, a conclusione delle sue ‘approfondite’ ricerche può affermare, dunque, che “la donna è un uomo arrestato nel suo sviluppo”, poiché è dimostrabile scientificamente che gli è inferiore tanto nella morale quanto nelle facoltà intellettuali» (Massimo Ciullo, “L’inferiorità dimostrata. Positivismo scientista vs. emancipazionismo”).



«Gilligan, dalle sue indagini, deduce che gli uomini e le donne hanno una differente concezione del rapporto con gli altri: i primi figurano i rapporti come una gerarchia, le seconde come una rete, e questo rimanda a una diversa concezione della moralità. Per il sesso maschile vi è il desiderio di essere soli al vertice della scala, quindi la paura è connessa al fatto che gli altri si avvicinino troppo; per il sesso femminile il desiderio è di trovarsi al centro della rete, quindi la paura è di trovarsi escluse. Alla concezione dei rapporti e alla visione morale maschile corrisponde l’etica giusnaturalistica, in cui il sé e l’altro saranno considerati egualmente degni e trattati con equità; alla concezione dei rapporti e della morale femminile corrisponde l’etica della responsabilità, in cui ciascuno avrà una risposta, e nessuno sarà lasciato ai margini o sofferente» (Giulia Mancino, “Il dibattito sulla teoria della differenza sessuale di Carol Gilligan”).



«È indubbio che a plasmare la mente di Cristina fu proprio la conoscenza di Giuseppe Mazzini, del quale ammirava la fede negli ideali di progresso, di libertà, di indipendenza e di giustizia. Quindi, pur non condividendo completamente la dottrina mazziniana la sostenne. Secondo Cristina, infatti, l’unificazione dell’Italia si articolava in due momenti: la liberazione dalla dominazione austriaca e la creazione di una monarchia costituzionale.

La svolta moderata del pensiero politico della Belgiojoso avvenne a seguito della constatazione della condizione di analfabetismo in cui riversava gran parte della popolazione d’Italia, condizione che privava la stragrande maggioranza degli abitanti di una visione politica matura e consapevole» (Gianna Proia, “Patriottismo ed emancipazione femminile in Cristina di Belgiojoso”).





Elena Luviso

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