Bartolini Tiziana Lunedi, 18/04/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2016
Ma che Europa è mai questa che, volendo fare la guerra totale al terrorismo, pensa bene di cominciare con l’erigere muri condividendo pari responsabilità tra i paesi che chiudono le frontiere e quelli che lo consentono. Il suo biglietto da visita l’Unione lo affida ai poliziotti, che controllano i confini e negano il passaggio a migliaia di profughi. Famiglie intere e bambini soli arrivano dopo viaggi inenarrabili e ad attenderli trovano rotoli di filo spinato che trafiggono sogni e intrappolano speranze. Le immagini e i racconti immersi nel fango di Idomeni sembrano arrivare dal set di un film che eccede nel rappresentare una realtà. Perché quella al di là delle barriere non può essere la nostra Europa, culla della civiltà dell’Occidente, del diritto e del rispetto per la dignità delle persone. La ferocia di Daesh conta sulla potenza della rete per la sua propaganda e affida alla follia solitaria dei kamikaze il messaggio di terrore con cui ha già vinto la sua guerra con l’assedio al cuore del Vecchio Continente. Di fronte alla straordinaria capacità di questo nuovo terrorismo di sfruttare la dimensione virtuale e di capitalizzare disponibilità di corpi pronti ad immolarsi, noi abbiamo scoperto le nostre fragilità politiche e culturali. I servizi (più o meno) segreti sono stati colti di sorpresa anche perché, almeno in teoria, avrebbero dovuto raccogliere e interpretare i belati di una classe dirigente che si è concentrata, invece, sul triangolo Bruxelles - Strasburgo - Francoforte per affinare le armi della burocrazia e gestire l’attacco della finanza internazionale. In questa inedita e asimmetrica guerra quanto di più palpabile esista - il corpo - si incontra, si scontra, si confronta con beni immateriali che consideriamo (consideravamo?) nelle nostre indiscusse disponibilità: libertà, benessere, sicurezza, diritti. Quelle moltitudini di corpi affogati nel Mediterraneo, in marcia lungo le strade europee o aggrappati alle recinzioni sono un drammatico monumento alla nostra cecità. Di fronte all’unica certezza - la necessità di riconsiderare e rimodulare i nostri stili di vita - è indispensabile la saggezza di chi si pone con coraggio e umiltà nell’ottica di studiare e sperimentare con l’arma del dialogo. In questo senso va letto il messaggio di condoglianze destinato alla mamma di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo a gennaio. “Sono con lei e sento il suo stesso dolore, come soffro, ogni giorno, fino ad ora, per Khaled. Voglio ringraziarla per essere con noi e per il suo interesse e per la preoccupazione per i casi di tortura in Egitto. Il lavoro di suo figlio sarà continuato”. La madre del blogger Khaled Said, assassinato a bastonate nel giugno 2010 da poliziotti ad Alessandria e considerato l’ispiratore della rivoluzione egiziana del 2011, ha affidato a YouTube il suo strazio ben comprendendo il ‘dolore necessario’ di Paola Regeni, madre di Giulio, che ha scolpito indelebilmente nelle nostre coscienze i patimenti del figlio. “Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui”. Ci piace pensare che dall’incontro virtuale di due “madri dei martiri” si tragga la forza per reagire alla cultura della violenza che, direttamente e indirettamente, nutre tutti i terrorismi. Perché se una madre, con il carico di dolore che le schiaccia il cuore, ha la capacità di pronunciare queste parole "la morte di Giulio non è un caso isolato”, vuol dire che tutte e tutti possiamo credere e impegnarci per disegnare una nuova civiltà delle relazioni umane.
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