Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2007
Non si sa se la compagna di Pegah Emambakhsh, detenuta in Iran e condannata a morte sia già stata lapidata o no. L’attenzione dei media e delle associazioni per i diritti umani ha rivolto l’attenzione più su Pegah, rinchiusa dal 25 agosto all'11 settembre come immigrata illegale nel centro di detenzione di Yarl's Wood, dove stazionano gli stranieri in attesa di essere deportati al loro paese d’origine: un luogo che speriamo non assomigli troppo ai campi per immigrati del film “I figli degli uomini”, ambientato proprio in Gran Bretagna, in cui gli stranieri illegali, prima di essere espulsi, erano fermati e relegati in un inquietante ghetto.
L'Inmigration Court deciderà se concedere o meno lo status di rifugiata a Pegah, tenuta prigioniera 19 giorni del democratico stato britannico per non avere dimostrato in maniera inconfutabile la propria condizione di omosessuale, nonostante al rientro in Iran sarebbe torturata e lapidata! Come se davvero la cosa più importante da dire su Pegah sia il suo orientamento sessuale e non il fatto che siano stati violati i suoi diritti umani di persona. E ripetutamente: nel suo paese che presume lecita l’intromissione dello Stato nel privato e che prevede la tortura, la lapidazione e la pena di morte per gli omosessuali; nel paese in cui chiede rifugio che non solo si intromette ma viola il suo privato andando a indagare e verificare il suo modo di amare; dai giornalisti d’assalto curiosi di sapere ancora di più sulla sua storia; dalle leggi che permettono tutto questo; dalla logica delle esclusioni, identica nel mondo islamico come dovunque: solo se scegli di essere etichettato puoi accedere a un diritto, solo se davvero perseguitabile puoi essere considerata perseguitata, solo se accetti una qualsiasi di questa gabbie potrai, forse, un giorno essere libera.
E se Pegah non avesse voluto dirlo di essere un omosessuale? O se nel frattempo volesse cambiare idea? Se il motivo per cui era scappata da una legge oppressiva era perchè avrebbe voluto provare a deciderla lei la forma della sua libertà, o della sua gabbia? Credeva che almeno questo fosse possibile nell’universo e nel tempo (più di 50 anni) dove è stata sottoscritta la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e le varie convenzioni ad essa connesse.
Ma chi è e cosa dice Pegah Emambakhsh per cui la società civile italiana si è mossa al punto tale (appelli e petizioni promossi dal gruppo EveryOne, articoli comparsi su stampa e internet) da far dichiarare alla ministra Barbara Pollastrini e al sindaco di Venezia Cacciari che se verrà deportata dall’Inghilterra potrà trovare rifugio qui da noi in Italia?
Della storia di questa donna, che ha dichiarato preferire morire piuttosto che essere costretta a rimpatriare, si sa molto poco: oggi ha quaranta anni, è arrivata in Europa nel 2005, fuggendo all’arresto. Anni prima le erano stati tolti i due figli, e negato ogni diritto di vederli, vigendo in Iran la legge del patriarcato (qualsiasi essa sia) che punisce la madre immorale. Cose che da questa parte del mondo succedevano esattamente allo stesso modo fino a meno di un secolo fa.
Non ci vuole molto a immaginare perchè la prospettiva di morire non sia apparsa tra le peggiori a Pegah. Eppure nelle poche affermazioni che è riuscita a fare dal momento del suo arresto più che disperazione trapela la capacità di guardare a quel che di buono la vita le sta offrendo, pur nello sbigottimento di avere trovato altro da quello che si aspettava.
Il 3 settembre dichiarava al quotidiano La Stampa: "Mi era stato detto che il Regno Unito è uno Stato molto accogliente con i profughi, molto attento ai diritti della persona. Se devo essere sincera, quando sono arrivata qui, ero convinta di essere finalmente al sicuro. Avevo perduto tutto, ma non rischiavo più la pelle. Invece è andata diversamente".
Lei si aspettava libertà ed invece si ritrova reclusa ma colpita da inaspettati gesti d’amore, che devono averle fatto cambiare prospettiva se così scrive nell’ultimo comunicato trasmesso dal centro di detenzione l’8 settembre 2007: "Non posso nascondere che ho ancora paura e che il distacco dai miei amati figli mi dà un dolore che a volte sembra insopportabile. Non immaginate neanche quanto mi sia di conforto sapere che ci siete voi. Non mi conoscete neanche eppure vi impegnate per me, vi esponete per me, lottate per me, mi scrivete e mi mandate fiori meravigliosi. ... Non immaginavo che esistessero gruppi ed esseri umani come voi. Spero che il futuro mi conceda di conoscere una per una le persone che mi hanno dimostrato tanta amicizia. Sono rasserenata, sono felice di tutta questa protezione, di tutto questo amore che mi infonde energia e volontà di continuare a vivere".
In attesa di sapere cosa ne sarà di Pegah resta un dubbio: quante persone, nel civilissimo mondo dei diritti umani, vengono deportate a sicure condanne o torture nei propri paesi di origine solo perchè - qualsiasi sia il loro reato, condizione, scelta, gabbia, fede, o la loro speranza - non riescono a fornire garanzie sufficienti per essere ritenuti degni di diritto d’asilo?
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