Giovedi, 17/07/2014 - Ho sbagliato a pensare, e scrivere, come se le cose fossero ormai quasi risolte: ha prevalso l’ottimismo e il desiderio di vivere in un paese dove qualcosa può cambiare.
Invece no, ancora no, non si può lanciare il cuore oltre l’ostacolo.
L’iter, quasi alla fine, del provvedimento che finalmente cancellava l’obbligo di attribuire a figlie e figli il solo cognome paterno è stato bloccato. Come volevasi dimostrare la responsabilità dello stop è quasi totalmente causata dalla resistenza degli uomini in Parlamento.
La motivazione più in voga è il benaltrismo: ma con tutti i gravi e seri problemi del paese proprio su questo si perde tempo? Al solito gli argomenti che toccano le relazioni umane primarie, nel simbolico come nel concreto, sono poco rilevanti. E non solo per la parte maschile del mondo, o per la parte conservatrice, o apertamente ostile ideologicamente al movimento delle donne e in generale al processo di autodeterminazione femminile.
Pensare che la rimozione dei meccanismi omissivi, segregativi, cancellatori e quindi invisibilizzanti del femminile sia una sciocchezza, sia irrilevante, sia rivendicativo, sia un segno di ostilità verso gli uomini, sia lotta inutile perché, appunto, c’è ben altro da fare: non è solo una prerogativa del pensiero maschile. Molte donne pensano così.
Da circa vent’anni, nella formazione, nei dibattiti pubblici così come nelle conversazione private mi sono trovata a discutere con uomini, certo, ma anche e soprattutto con moltissime donne convinte che quella per la cancellazione dell’obbligo del cognome paterno fosse una lotta di poco conto, e non parlo di donne e uomini lontani dalla politica ‘a sinistra’: conto su meno delle dita di una mano i casi di famiglie formate da giovani che hanno deciso di ingaggiare il braccio di ferro (che conosco bene, per averlo sperimentato per ben due volte) per dare anche il cognome della madre ai figlie e alle figlie.
Ho smesso da tempo di aspettarmi che accadesse, tra le fila delle e degli attivisti dei movimenti.
Sono convinta che non basta avere chiare le mire di chi avversa l’apertura di spazi di libertà e condivisione: occorre dirsi che siamo soprattutto noi, uomini e donne ‘evolute’, a sinistra e nei movimenti, ad avere spesso problemi con gli atti concreti che danno corpo all’autonomia e alla differenza femminile, e di certo la questione del cognome non è secondaria in questo processo.
Non è secondaria perché nomina l’ingiustizia dell’occultamento della madre nella nominazione dei figli e delle figlie, nomina il potere assoluto che ancora pervade la concezione della famiglia nonostante il diritto di famiglia modificato negli anni ’70, perché perpetua la signoria del maschile come unico genere (più degno) a rappresentare e perpetuare l’eredità, in senso economico così come simbolico. Non sono nemmeno moltissime le femministe che hanno affrontato il difficile iter per dare anche il loro cognome: si tratta di una scelta, di un percorso verso il quale si fatica a trovare solidarietà e consenso, osteggiato ovviamente e palesemente, come dimostrano i fatti recenti, dalle istituzioni di ogni ordine e grado, ma anche (e soprattutto) dai tuoi luoghi.
Il patriarcato non sta solo fuori, ben radicato nei corpi e nelle menti degli avversari: quello più duro da affrontare è dentro di noi. Nei nostri luoghi, che hanno fin qui minimizzato il tema, usando allo stesso modo dei reazionari il benaltrismo come scudo: dentro di noi, donne e uomini che si autodefiniscono liberati. Perché darsi valore nelle relazioni umane, specialmente nelle relazioni affettive, quando significa aprire conflitti fa male, e spesso vuol dire, per le donne, spezzare quel ‘sogno d’amore’ al quale ancora tanto occorre pensare.
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