Mercoledi, 05/09/2012 - Il passaggio in Siria dalla Turchia non è il remake di un percorso da Benghazi nella Libia profonda. Ad Antakya, almeno per i primi giorni, si è soli: i campi profughi di Yayladagi, Boshin, Kilis, Altiniozu, sono riferimenti, passi, percorsi che si muovono interpellando i passanti.
La Siria non è la Libia, perché non concede un porto sicuro , o zona protetta, dove riparare, né un media center che organizzi conferenze stampa con i generali dell'opposizione e faccia i biglietti per la guerra.
Tra tutti i campi tuttavia, il più off limits, è quello di Apaydin, 20 km a sud di Antakya, che si rivelerà poi il quartier generale dell'esercito libero siriano in Turchia. Lì, non si danno neanche la pena di spiegare perché "non si può".
Procediamo dunque letteralmente per le vie dirette, da un'apertura nel reticolato; nel campo, la gente testardamente racconta le sue storie in arabo, ogni tanto c'è qualcuno che traduce. Quella di Fahere Zerzore, 86 anni di Idlib con l'attitudine al comando negli occhi, si capisce da soli: solleva le braccia di fronte, e chiude un cerchio, indicando chiaramente una donna incinta. Poi col pugno armato virtualmente da una lama, sferza l'aria davanti al ventre come a squarciare il grembo ostentato.
I profughi sono in maggioranza di Idlib, nel nordovest, provincia siriana che ha mandato, alla fine della sua seconda primavera araba, circa 2000 anime dall'altra parte del confine in 48 ore, portandone il totale a 29.500, solo nella provincia di Hatay, Turkia del sud.
Scovati dagli addetti, e cortesemente invitati a salire in macchina, siamo condotti in ufficio dove l'interprete, incaricato di cancellare le immagini dalla memory card, gira in tondo la ruota del playback, in senso orario, poi antiorario, inconcludentemente.
L'esercito libero siriano c'è e batte un colpo, finalmente, nelle sembianze di Abu Ammar, soprannome per Mahmoud Elzour, 52 anni, un emigrato Siriano tornato da Atlanta per aiutare i suoi fratelli, come un dejà vu dell'anno scorso,
quando gli emigrati libici tornavano da Londra per andare a tirare i razzi a spalla dal fronte di Dafniya.
Abu ci procura un passaggio a Bereniaz, l'ultimo villaggio turco prima di un "confine" unico, senza frontiere, passaporti, o dogane. Dormiamo sul portico della fattoria di Abu Fahed, sotto una rete antizanzare assolutamente inutile, svegliati ogni tanto dalle telefonate "oltreconfine" di Saleh, secondo componente dell'ingranaggio, che, due chilometri più in giù, collabora al nostro passaggio in Siria.
La moglie di Fahed, dopo aver dissolto il caglio in una tinozza di latte, ci indica, con una torcia, il bagno, che è ovunque, al largo nei campi.
Muhammad, interprete, e Saleh vengono a prenderci da Atme per farci attraversare, tenedoci per mano, un chilometro di terra fangosa di nessuno. La Siria , la provincia di Idlib , Atme (terra verde) e gli ulivi all'infinito sono al di là di un buco in un reticolato metallico. In senso inverso, nell'alba già calda, qualche motocicletta siriana scarica profughi sotto gli occhi, entrambi effettivamente chiusi, delle autorità turche.
Ad Atme, al quartier generale dell'esercito libero, i ribelli, "guerriglieri", o "rivoltosi" per chi scrive a distanza raccomandabile, sembrano usciti dall'università più che dai ranghi di Bin Laden;
le armi, i soliti AK47, e gli rpg, peggio della Libia prima della Nato (in data dello scritto). Alla domanda cliché degli ultimi 2 anni : "perché la Nato ha abdicato ai propri dogmi in Siria e non in Libia?" la risposta è un cliché in arabo planetario: "petrol".
Da Atme, Mujahid, terzo riferimento di Ammar, che orchestrava il tutto da Antakya, ci conduce a Meadia, (pr Madaia) circa 200 km più a sud, spettrale, da non confondersi con la Madaya presso Damasco. Durante il tragitto, siamo tranquillizzati: "no Bashar" nelle campagne di Idlib; da Meadia si arriva a Kfrezeta, dove gli amici che ci offrono il çay, raccontano di incendi al fosforo bianco, utilizzato dalle forze governative per ripulire etnicamente le case dei sunniti e il loro contenuto umano, come in una battaglia di Falluja, con un miglioramento di risoluzione nell'immagine rispetto al cellulare: al computer, da un mozzicone di torace carbonizzato saltano fuori le pupille, come biglie bianche.
20 giugno mattina: Strada per Khan Sheikhon, grande centro dal livello di vita più elevato: ci fermiamo sul luogo di un'esecuzione, gli amici siriani vogliono delle foto ma fortunatamente le batterie sono scariche dato il razionamento di energia serale; Zuher, l'interprete, spiega che i check point dell'esercito generalmente li identificano via esecuzioni, magari non in questo caso, dato che il corpo, come lui stesso ammette, è stato spostato.
Il capitano Foud Qotiny, 35 anni, e Anas Hassao, 40, del Free Syrian Army di Khan Sheikhon, entrambi 2 stelle e un'aquila, assicura l'interprete, provvedono a turno e tutto il tempo alla nostra sicurezza, dalle ispezioni alle zone bombardate a un detour al souk;
A giudicare dalla maniera in cui i due militari ci trattano, sembra che i giornalisti non siano passati, a Khan Sheikhon: perché i due uomini, incantati, ci fanno fotografare alcune dozzine di edifici rasi al suolo, ci presentano mezza città e ci portano prima in caserma, e poi in famiglia.
Saltando tra una pietra semibarcollante e l'altra nei resti di un edificio dalle sembianze terremotate, Hany Sousi, studente in scienze politiche a Damasco, sussurra improvvisamente "speed, speed", per farci accellererare. Al pomeriggio, ci fanno esaminare un 14,5 mm proveniente da un carro BMT, che, verso l'una, ha ucciso un uomo esattamente nei dintorni della nostra ricognizione.
Poi, al piccolo cimitero dedicato a Shouhada Kahn Sheikhon, il martirio di Khan Sheikhon, (il 15/05/2012, quando 50 persone furono uccise in un solo giorno sotto i bombardamenti) un gruppetto di bimbi si accosta ad una tomba, non sono accompagnati. Poi, nel mirino dell'obbiettivo, si compone lentamente, gesto per gesto, una scena di dolore precoce, infantile ma consumato: i bambini pongono rose sulla tomba degli amici Shalid, Nohad,
Halid, e Zahta, poi si alzano, tendono i palmi verso l'alto, e pregano per poco: scalfiti dal dispetto nel momento della pietas, si allontanano.
Dalle ragazze della casa impariamo ad a abituarci alle esplosioni, vengono dal calibro 82 dei tank 72, e alle schioppettate dei cecchini , che sembrano tirate da dietro l'angolo, talvolta addirittura da dietro la porta. Quando cessano, tornano ai giochi al computer, e poi a nient'altro, dato che internet non c'è.
Il giorno seguente è un venerdì, tradizionalmente giornata di dimostrazione : la facciamo di corsa, come misura di protezione un pò idiota dai cecchini, e andiamo a sfociare, attendibilmente, in una piazza, dove in uno striscione i dimostranti si chiedono ancora "dov'è la gente del mondo", firmato, "la gente di Khan Sheikhon", dove, ormai, la cantilena è di 2 morti in media al giorno.
Al ritorno, Hany ci ordina improvvisamente di fare lo zaino, poi, per la seconda volta in due giorni, sussurra "speed, speed". Foud spiega che l'esercito di Assad sta circondando Khan Sheikhoun, ci deve fare uscire immediatamente. In macchina, Foud al volante, e Hany; dietro, con noi, due uomini armati.
Gli apparecchi di telecomunicazione promessi dagli americani settimane fa ai ribelli evidentemente non sono ancora stati consegnati, perché il comandante Foud Qotiny, due stelle e un'aquila, dell'esercito
libero, non ha un navigatore o un satellitare e deve accostarsi a verificare coi contadini la strada per Madaia.
In un'ora, ci riscaricano, per la seconda volta in due settimane, a Madaia a casa di Mujahid, proprieterio
di una casa vuota che alla sera si riempie di tanti materassini quanti i membri della famiglia, e di una moglie.
Ritorno ad Antakya, all'albergo Orontes compare, finalmente, un giornalista. Più che arrivato dalla Siria, . David, di New York, sembra scappato. Si chiede se Austin, del Texas, sia ancora vivo. Austin, un ex
marine, è conosciuto anche da chi non l'ha mai visto, perché circola la storia su di lui, che abbia aiutato i ribelli a far saltare in aria un cecchino, gridando: Allah Uakbar, Dio è grande. Poi chiede se siamo al corrente della recentissima storia sulla CIA, proveniente da fonti effettivamente affidabili. A digiuno dai
media dall'entrata in Syria lo guardiamo ignoranti e imbarazzati, poi scarichiamo gli ultimi podcasts da On Point, il sito di Tom Ashbrook: cliccando su quello del 2 giugno, un'istantanea: la Cia, stando al New York Times, sta effettivamente dirottando armi ai ribelli della Siria.
Su questo andiamo a sentire Abu Ammar stesso, che talvolta sorseggia çay al caffè di fronte all'hotel Mosaik, Gli infiliamo, non poi figurativamente, gli auricolari in posizione adatta ad ascoltare il
pezzo, che manifestamente non lo impressiona: "Mujahid era in città oggi, ha detto che a Meadia hanno bombardato il mercato, se avete amici che possono fare qualcosa, in Italia, ditegli di aiutarci".
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