Partorire senza violenza: Freedom for Birth Rome Action Group
- I diritti delle donne, l’autodeterminazione e il controllo sul proprio corpo si fermano sulla soglia dell'ospedale. Il convegno di Freedom for Birth Rome Action Group ha indagato le ragioni mediche, storiche e antropologiche di questa ‘rimozione'
Redazione Domenica, 28/12/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2015
Il diritto delle donne di autodeterminarsi nel percorso nascita ed in particolare al momento del parto. Questo il tema della giornata di riflessione organizzata da Freedom for Birth Rome Action Group (Roma, 29 novembre 2014, Casa Internazionale delle Donne). Intorno al titolo "La violenza nel parto: antichi e nuovi rituali per il controllo e disciplinamento del corpo della donna" le organizzatrici hanno chiesto di intervenire ad “addette ai lavori" (ostetriche, psicologhe e medici) ma anche e soprattutto a storiche, antropologhe e bioeticisti, in modo da presentare una prospettiva più ampia che potesse aiutare a fare chiarezza sull'origine e la funzione sociale di pratiche finalizzate al disciplinamento e controllo della donna nel percorso nascita. La scelta di Freedom for Birth-RAG di utilizzare in modo esplicito il termine violenza per definire le pratiche a cui vengono sottoposte le donne (posizioni obbligate, taglio della vagina, lontananza dal bambino ecc), viene così spiegata da Mirta Mattina, una delle due psicologhe del gruppo: "il fenomeno della Violenza Ostetrica sembra essere allo stesso tempo ed in modo paradossale, evidentissimo e invisibile: basta confrontare le routine sanitarie con le raccomandazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e le linee guida dell'Istituto Superiore di Sanità, per rendersi conto dell'evidenza e diffusione del fenomeno. Fenomeno che però appare anche invisibile qualora si decida di parlarne pubblicamente, sembra infatti che operi una sorta di negazione collettiva o di rimozione che impedisce di riconoscere e qualificare come violenti gli atti non necessari e non acconsentiti che vengono agiti sulle donne e sulle persone che nascono".
Aggiunge Carmen Rizzelli, l'altra psicologa di FFB-RAG: “proprio l’assenza di consapevolezza e di strumenti culturali per leggere e riconoscere il fenomeno della violenza ostetrica la rende tollerata e cronica, comunque invisibile e non sanzionabile. Seppure lascia profonde ferite psicologiche nelle donne che ne fanno esperienza. (…) Dunque sembra che parlare di violenza nel parto sia percepito come un qualcosa di potenzialmente pericoloso per il sistema patriarcale dominante, anche interiorizzato, ed equivalga ad infrangere un tabù, sfidando una prescrizione sociale scotomizzante che rende invisibile una parte della realtà. In tante altre occasioni le donne si sono trovate in questa stessa condizione, ad esempio, fino a poco tempo fa, anche il termine "violenza domestica" rappresentava un tabù, in quanto veniva negata l'esistenza stessa del fenomeno e, per arrivare al riconoscimento di questo tipo di violenza, è stato necessario un percorso che è partito dalle donne per poi estendersi al resto della società. (…)”.
Ma che cos'è la violenza ostetrica? Virginia Giocoli, avvocata del movimento, la definisce come "la negazione del diritto delle donne di compiere scelte informate e autonome e praticare sul loro corpo atti medici non necessari e non acconsentiti dalla donna stessa, durante il travaglio e il parto" e aggiunge che "solo tre paesi al mondo (Venezuela, Argentina e Messico n.d.r.) hanno riconosciuto la violenza ostetrica e l’hanno recepita nel loro ordinamento normativo all’interno di leggi contro la violenza sulle donne. Perché di questo si tratta: di una forma di violenza sulle donne, e come tutte le forme di violenza è causa di effetti dannosi dal punto di vista fisico e psicologico".
Durante il convegno sono state particolarmente toccanti le testimonianze di numerose donne che hanno ricordato, con molto dolore e sofferenza, il loro parto e la sensazione di impotenza di fronte alla violenza subita. In particolare hanno fatto riferimento alla limitazione del movimento durante il travaglio, la mancanza di informazioni e coinvolgimento nelle decisioni che riguardavano il loro corpo. La proibizione, senza indicazioni mediche al bere e al mangiare. La negazione del diritto di avere una persona accanto di sua scelta. Subire, senza alcun motivo, pratiche dolorose e violente, come la dilatazione manuale del collo dell'utero e rottura del sacco amniotico, l'obbligo della posizione sdraiata durante il parto, il taglio della vagina e la separazione dalla persona nata immediatamente dopo il parto, senza poter in nessun modo sottrarsi, scegliere o obiettare. L'ostetrica Gabriella Pacini, presidenta dell'associazione Freedom fo Birth-RAG e moderatrice del dibattito, ha ricordato le limitazioni delle libertà che le donne subiscono. Significativo l’intervento di alcuni operatori sanitari, ostetriche e ginecologhe, che hanno condiviso la difficoltà che incontrano, nei loro contesti di lavoro, nel momento in cui provano a mettere in discussione pratiche inutili e routinarie nel percorso nascita. In particolare emerge da alcuni dei loro interventi il tema della paura: da un lato la paura degli/lle operatori/operatrici sanitari/e rispetto alla libera scelta delle donne alla nascita e dall’altro la loro percezione della paura e dell’ansia delle donne stesse durante il parto che le porterebbe a delegare la scelta stessa. La paura sembra proprio il vissuto emotivo che funge da benzina che alimenta e sostiene la macchina dell’ipermedicalizzazione troppo spesso non informata e non acconsentita. Rispettare il diritto alla completa e corretta informazione e l’attuazione di un modello di cura partecipato e centrato sulla persona ci sembra essere un terreno da dover coltivare insieme per uscire dall’empasse e poter passare dalla predominanza della paura/sfiducia alla fiducia. (…)
Maurizio Balistreri, filosofo, ha osservato: “colpisce il silenzio delle filosofia sul tema della gravidanza e del parto, che rimangono a tutt'oggi ambiti inesplorati se li confrontiamo con l'attenzione che viene posta, non solo dalla filosofia ma dalla nostra cultura in generale, a questioni che riguardano altri momenti dell'esistenza. La riflessione bioetica - scrivono le femministe - e in genere le prospettive che difendono nuovi spazi di libertà e autonomia sembrano fermarsi di fronte al tema del diritto alla libertà di scelta e autodeterminazione delle donne sul come e dove partorire e non sembrano sensibili alle rivendicazioni sempre più diffuse delle donne incinta. Il dibattito, molto acceso e diffuso, che riguarda l'interruzione di gravidanza e la fecondazione assistita, sembra fermarsi completamente sulla soglia della sala parto. (…)”.
Secondo l’antropologa Annalisa Garzonio “il parto naturale non esiste e non è mai esistito. In nessuna parte del mondo. Invece di essere considerato un fatto puramente fisiologico gli andrebbero riconosciuti i caratteri di categoria culturale magistralmente costruita e manipolata per legittimare, di volta in volta, differenti forme di appropriazione del potere sui corpi delle partorienti e del corpo sociale più ampio (…)”. Valentina Gazzaniga, docente di Storia della Medicina all'Università La Sapienza di Roma, ha presentato un'interessante relazione, finalizzata a indagare le origini di questo tipo di violenza nella nostra cultura, in cui ha evidenziato come, nel mondo greco-romano, la visione del corpo femminile come di un corpo minoritario sia stata funzionale all'introduzione di un Pantheon maschile che andasse a sostituire quello femminile, che aveva caratterizzato le società gilaniche preesistenti (studiate da Maria Gimbutas). Gazzaniga ha affermato che: "tale visione del corpo femminile e dei processi riproduttivi era funzionale al controllo sociale delle donne ed alla strutturazione di una società patriarcale".
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