Intervista a Lidia Menapace - Un dialogo reale tra rappresentanze e rappresentati è ciò che serve per far vivere la democrazia
Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2006
Lidia Menapace, figura storica del movimento femminista e nonviolento, eletta al Senato come indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista e candidata dal movimento pacifista alla carica di Presidente della Repubblica, risponde alle nostre domande sull’imminente appuntamento referendario.
Cosa pensa della devolution?
Quando fu presentato e poi votato questo progetto di legge, fui molto preoccupata. Non tanto per la devolution, perchè sono per il massimo delle autonomie possibili, ma per l’autonomia fiscale perchè il fisco è uno strumento di riequilibrio dell’uso delle risorse e invece con la devolution anche fiscale chi è ricco resta ricco e chi è povero diventa sempre più povero.
E della parte che modifica gli assetti istituzionali?
Questa è la cosa che mi preoccupa di più. Il Presidente della Repubblica non conta più niente e il Capo del Governo (non più Presidente del Consiglio) viene eletto direttamente dal popolo e l’inghippo veramente preoccupante dal punto di vista della riduzione della democrazia è che se il Parlamento lo sfiducia non decade proprio perchè eletto dal popolo. Lui, però, ha il potere di sciogliere il Parlamento. Insomma sarebbe una figura super autoritaria di Premier in una mancanza di poteri da parte del Parlamento. Non solo, quale Parlamento voterebbe contro un Presidente che lo ha fatto eleggere e che lo può mandare a casa? I parlamentari non sono eroi.... e va detto che purtroppo però l’idea del premierato piace anche a parte della sinistra.
A cosa avrebbe dato priorità lei per migliorare le forme della politica?
Innanzitutto alla democrazia. Alla presenza di un dialogo reale tra rappresentanze e rappresentati. E al rallentare la rapidità con cui si prendono le decisioni. E questo vale a vari livelli. Io sento molto forte l’urgenza di agire per cambiare le cose, ma al tempo stesso so che quando c’è un’urgenza bisogna essere lenti. Ciò di cui avremmo più bisogno sarebbe distendere in un tempo ristretto un ragionamento calmo. E questo, purtroppo, non si riesce a fare, a causa della rapidità con cui si fanno le cose. Noi donne elette, che ci siamo riunite in un comitato, siamo state già sorpassate dalle decisioni che sono state prese, rapidamente, da quelli che si sono subito insediati, attaccati al loro potere. Per non parlare della possibilità di portare in Parlamento le rivendicazioni di un movimento della società civile. Arriva sempre tutto troppo tardi. E ci ritroviamo a fare i giochi di risulta. Mentre invece ciò che più servirebbe è avere la forza di dire: “no fermiamoci un momento, più che di andare veloce adesso serve mantenere una relazione molto fervida tra rappresentanze e rappresentati/e”. Bisogna fermare il vorticoso moto della politica, rallentare i tempi per fare spazio alla democrazia perchè se no ci troviamo sempre di fronte al fatto che altri, che avevano la legittimità di farlo, hanno preso le decisioni...
E nel frattempo cosa può aiutare la democrazia?
I movimenti dovrebbero chiedere un’interlocuzione alla pari con i partiti di riferimento. Loro compito è fare emergere in maniera chiara le posizioni della società civile e superare un linguaggio troppo generico. Non basta dire “superamento di una determinata legge”, bisogna anche specificare che cosa si intende per “superamento”, che per alcuni può essere andare avanti per altri tornare indietro. Mi riferisco, ad esempio, alla legge 30.
Ma la politica è incastrata in questo moto vorticoso, o c’è qualche possibilità di uscirne?
I movimenti della società civile rappresentano una grande potenzialità, purché abbiano la capacità di leggere il reale nella sua complessità e non sentano troppo il bisogno di unità o sintesi. Io sono contraria a questi termini, che sono monoteisti e tengono sempre fuori qualcuno. Il pluralismo è un’altra di queste trappole. Perchè non è assolutamente detto, ad esempio, che una nazione dove ci sono otto partiti sia più democratica di una dove ce ne sono quattro. Il problema sta nel fatto di stabilire nel partito (forma politica che ha finito la sua storia, anche se continua a mantenere un grande potere) l’unica forma della politica, mentre invece bisogna avere a cuore una molteplicità di forme. I movimenti non sono, come dice qualcuno “pre-politica”, bensì sono altre forme della politica. In una società complessa come la nostra non è più possibile avere una sola forma che interpreta la società. È necessario che i soggetti si organizzino secondo le proprie caratteristiche, e la sfida, a mio parere, è quella di riuscire a gestire la molteplicità lasciandola molteplice e non cedere al riduzionismo.
(9 giugno 2006)
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