Sondaggio di dicembre - Per una lingua italiana rispettosa dell’identità di genere: cambiamenti necessari, possibili o superflui
Rosa M. Amorevole Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2008
Mai come questa volta il sondaggio del mese ci offre materiale per riflettere: da un lato le risposte alle domande chiuse che imponevano una scelta fra opzioni possibili, dall’altro le risposte aperte che si portano dietro l’esperienza della persona maturata in contesti e in età diversi.
Le scelte tra quelle da noi proposte indicano che la modificazione della lingua italiana per renderla più rispettosa dell’identità di genere è “una piccola rivoluzione nelle abitudini, in grado di produrre un cambiamento culturale” per il 46% dei/delle rispondenti, per il 40% è “un modo per evidenziare che le donne ci sono, in tutte le professioni e per valorizzare il percorso fatto dalle donne”, mentre per il 9% non riesce ad abituarsi “alle professioni declinate in questo modo…suonano proprio male!”. Il 3% ritiene che potrebbe essere fatto anche da noi, visto che lo fanno già in altri Paesi, ma l’1% ritiene che “comunque l’impatto sarà nullo”.
Quale è stata la reazione la prima volta che si è sentito parlare di ciò? Le risposte si articolano:
- fra chi ha vissuto una reazione positiva (“non ci avevo pensato”, “perché non averci pensato prima”, un approccio “sensibile”, “originale”, “semplice”, “positivo”, “se non si comincia dal linguaggio come si fa ad essere visibili?”, “esiste una potenza simbolica del declinare al femminile”) e motiva il proprio sentire con la necessità di non “rassegnarsi ad una consuetudine che si crede immutabile. La lingua si evolve con la società, come ha sempre fatto e non si fermerà ora”. E da chi non è nata in Italia, e si è qui trovata per motivi di studi, la testimonianza di essersi sentita mortificata in una situazione dove l’identità di genere non veniva tenuta in considerazione a differenza del consenso ottenuto da questa pratica nei paesi anglosassoni e ispano-americani. O ancora “l’effetto sonoro della finale sembrava amplificare ancor di più il sostantivo. Sono convinta che si debba declinare così perché avvocata e pari ad avvocato, mentre avvocatessa sembra subordinato”, perché “la lingua ha un riflesso sul cervello” e “negli anni le professioni si sono sviluppate trasversalmente ai generi mentre la lingua non si è evoluta. Censura o cesura dell’identità?”;
- fra coloro che affermano di non esser stata/o colpita/o per niente (“è un sintomo del dominio culturale maschile”, “ho sempre parlato al femminile ed invitato donne e uomini a farlo”);
- e chi manifesta una reazione negativa (“è giusto ma suona male”, “è sgradevole, non piacevole, sembra una presa in giro”, “è artificioso”) e motiva la scelta anche ricordando la grammatica italiana (“non dovrebbe essere applicata. La lingua italiana prevede che il genere sia dato dall’articolo, non dalla desinenza”).
Se in alcune professioni praticate prevalentemente da donne la declinazione al maschile è stata semplice (infermiera/infermiere, ad esempio), c’è anche chi dichiara di essere colpita dalla involuzione del linguaggio (“alle elementari avevo la direttrice ed oggi c’è il direttore. Le donne si definiscono “un formatore”, “un consulente” .. e via dicendo. Che tristezza!”).
I cambiamenti utili per avere una lingua rispettosa dell’identità di genere dovrebbero essere, per chi concorda con questa tesi, applicati da subito: dal vocabolario, dalla scuola, dai vertici pubblici, dai luoghi di lavoro, magari anche a partire “dalla messa fuori dal senso comune di espressioni come ‘avere le palle’ o ‘ è brava a guidare sembra un uomo!’”. Ed anche nel nostro questionario. Ci impegniamo fin da ora a modificare, alla voce “stato occupazionale” del nostro questionario da “casalinga” a “casalinga/o”.
Nella propria realtà le risposte affermano che un tale uso della lingua italiana non viene seguito da nessuno o da pochi, oppure solo da chi fa parte di specifici organismi di parità (comitati e commissioni pari opportunità) o in ambito politico e partitico, tra chi ha maturato percorsi femministi. Prevalentemente da donne.
Un elemento che colpisce, in questa nostra piccola analisi, è l’ impatto che il tema incontra rispetto le nuove generazioni. Anche a seguito delle differenze emerse nel confronto “di madre in figlia”, si è voluto approfondire con un gruppo di giovani donne ai primi anni di università.
Nelle loro risposte non si è individuato un interesse specifico al tema del linguaggio, come se questa eccessiva attenzione portasse ad una dispersione di energia tale da depotenziare l’azione nei confronti dei diritti e della parità tra donne e uomini. Come se questa attenzione fosse più di “maniera” e poco di “sostanza”. Ed essere chiamata Signora o Signorina invece di “dottore”, “ingegnere” o “avvocato” secca perché va a ledere la professionista più che il genere femminile.
Questa dicotomia ci porta a riflettere sulla necessità di un confronto fra generazioni, anche allo scopo di favorire un’utile trasmissione di saperi, per raggiungere nuovi obiettivi di parità tra i generi facendo tesoro delle differenze e dei percorsi maturati nella storia delle donne.
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