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Padri gay e madri lesbiche, non per capriccio ma per coscienza

Padri gay e madri lesbiche, non per capriccio ma per coscienza

Intervista a Tommaso Giartosio, scrittore e conduttore radiofonico, dell'associazione Famiglie Arcobaleno

Lunedi, 01/02/2016 -
Tommaso Giartosio è scrittore e conduttore di Fahrenheit su Rai Radiotre, e con Gianfranco Goretti è diventato papà di Lia e Andrea grazie a una “gestazione per altri” (o maternità surrogata) negli Stati Uniti.



Famiglie Arcobaleno è la principale associazione di genitori omosessuali in Italia: com’è nata e quando?

Nasce nel 2005 dopo una serie di discussioni entro un gruppo di lesbiche italiane. Molte di loro erano già diventate madri con le tecniche di procreazione assistita, altre intendevano farlo, c’era dunque il bisogno di associarsi. Si discuteva con calore sull’opportunità di fare o no un’associazione aperta agli uomini; alla fine ha prevalso l’apertura. Quando ci siamo iscritti, a un anno e mezzo dalla nascita di Famiglie Arcobaleno, c’era una sola coppia di padri oltre a noi. L’associazione poi ha continuato a crescere; oggi ha 800-900 soci. Esistono molte associazioni omologhe in altri paesi.



Quando siete entrati in Famiglie Arcobaleno come hanno reagito le donne?

E’ stata una grande sorpresa per noi. Nell’associazione erano iniziate le discussioni sulla gestazione per altri, e sin dall’inizio a difenderci sono state soprattutto le coppie di donne, anche negli anni successivi. Erano loro a tutelarci, perché non accettavano l’idea che la madre sia solo quella che partorisce. Erano le prime a difendere l’idea che si è genitori perché ci si fa carico di un ruolo, perché si avvia un progetto, perché ci si assume una responsabilità; il fatto che poi fisicamente una delle due abbia la gravidanza e l'altra no non è certo privo d’impatto, ma non fa di una donna la madre e dell’altra una sorta di stampella. Quindi erano (e sono) molto preoccupate del fatto che si attaccasse la gestazione per altri, perché anche per loro era importantissimo riconoscere che la famiglia nasce dall’amore, non dalla biologia.



Com’è diventato genitore insieme al suo compagno?

È stato un percorso graduale. Ci siamo sposati nel ’98 in Italia, con una cerimonia molto sentita. Ne parlarono anche i giornali, ma ovviamente non aveva valore legale. Poi abbiamo cominciato a ragionare su come poter avere dei figli. Ne abbiamo discusso molto tra di noi e con gli amici, tenendo conto del fatto che in Italia non potevamo adottare.



Ancora oggi in Italia una coppia omosessuale non può adottare. Con la legge Cirinnà cosa cambierebbe?

A una coppia gay o lesbica continuerebbe a essere proibita l’adozione congiunta, cioè l’adozione di bambini esterni alla coppia. Diventerebbe invece possibile per uno dei due membri della coppia adottare il figlio legittimo dell’altro. È la cosiddetta “adozione del figlio del partner”, o stepchild adoption. Per le coppie eterosessuali sposate questo è già possibile, fin dal 1983: se per esempio una donna ha un figlio da un uomo e poi sposa un altro uomo, quest’ultimo può adottare il bambino, di solito con il consenso del padre legale (se c’è). Dal 2007 i tribunali hanno cominciato ad applicare questo principio anche alle coppie eterosessuali conviventi. La novità è che con la legge Cirinnà quello stesso regime sostanzialmente sarebbe a disposizione delle coppie omosessuali: un gay o una lesbica potrebbe adottare la figlia del suo partner. Figlia o figlio che può essere frutto di una precedente relazione etero, o di una procreazione assistita, o di una gestazione per altri (quello che qualcuno chiama ancora utero in affitto).



Ma all’estero gli omosessuali possono adottare?

In molti paesi, anche dell’Unione europea, le coppie dello stesso sesso possono adottare il figlio del partner e anche praticare l’adozione congiunta. Gay e lesbiche italiane no. E non possono neanche andare ad adottare bambini all’estero, perché l’adozione da parte di una coppia omosessuale o di un single non verrebbe poi riconosciuta dallo Stato italiano. Un nostro amico che aveva adottato un bambino in America si è dovuto trovare un lavoro in Svizzera: l’adozione attuata negli Usa è riconosciuta dagli svizzeri, ma non dall’Italia.



Ritornando alla vostra esperienza, quali possibilità avete vagliato prima di andare in America?

Una volta esclusa la possibilità di adottare all’estero, abbiamo pensato di fare una co-genitorialità. Cioè abbiamo pensato di avere dei figli con una donna esterna dalla coppia. Ne abbiamo parlato con qualche amica, però la cosa non è andata in porto. Sarebbe stato un percorso difficile.



Perché? C’è un vuoto culturale in Italia che non permette questo tipo di esperienza?

In realtà queste donne sono state molto generose, noi abbiamo solo gratitudine nei loro confronti. Però quello che succede è che in realtà tu vuoi avere un figlio con la persona che ami, o talvolta da sola; e ovviamente è difficile condividere un figlio anche con altri.



In America avete iniziato un percorso conoscitivo attraverso le agenzie a cui si rivolgono le donne che intendono fare la gestazione per altri.

Si, nel 2000 siamo andati in California - ci avevo vissuto qualche anno, era una realtà che conoscevo bene. Abbiamo contattato un’agenzia, ci siamo informati. Abbiamo visto che la legge americana impone delle condizioni di tutela: la “portatrice” (si dice così) deve avere già avuto figli, deve essere informata e consapevole, deve godere di stabilità economica. Riceve anche un compenso, ma non è un incentivo tale da convincerla a fare qualcosa in cui non crede: è come la retribuzione che giustamente ricevono tante persone che svolgono attività fortemente vocazionali: pensa alle dottoresse che lavorano nelle Ong in Africa… Però abbiamo deciso di rifletterci ancora, siamo ritornati in Italia e sono passati quattro anni. Nel 2004 siamo ritornati e abbiamo conosciuto Nancy, che è una donna straordinaria; ed è così che ci siamo convinti.



C’è stata una sintonia con Nancy?

Sì. C’è una forte empatia. È un’infermiera professionista, ha quattro figli, anche nella sua famiglia è una persona che ama aiutare gli altri. Ha un cugino gay a cui è molto legata e che non aveva potuto avere figli. Quindi ha deciso di fare questo percorso, e noi insieme a lei. L’agenzia incrocia questionari molto dettagliati in cui ognuna delle parti in causa si presenta, si racconta, si dice con chi vorrebbe avere a che fare…



Quindi è l’agenzia che media tra la madre e la coppia?

Di solito sì, infatti il primo passo è scegliere l’agenzia.



E questa pratica, la gestazione per altri, è legale solo in California oppure anche in altri Stati?

È legale in buona parte degli Stati Uniti, ma in ogni Stato è regolata in modo diverso. In alcuni è particolarmente facile praticarla, esiste un iter prestabilito: la California, l’Ohio… Inoltre moltissime coppie vanno in Canada.



Secondo lei come mai in Italia si fa tanta fatica su questioni come le unioni civili o su argomenti come la gestazione per altri?

Prima di tutto vorrei chiarire che non c’è nessun nesso diretto tra unioni civili e gestazione per altri. Nelle unioni civili, l’adozione del figlio del partner riguarderebbe quasi solo le coppie lesbiche, perché sono soprattutto loro ad avere figli – ovviamente senza ricorrere alla gestazione per altri. Quanto a quest’ultima, è già vietata in italia, e rimarrà vietata anche se si approvasse il disegno di legge sulle unioni civili. Inoltre viene praticata nella stragrande maggioranza dei casi da coppie eterosessuali con problematiche riproduttive. I gay c’entrano davvero poco.

Ma per rispondere alla sua domanda: l’Italia è arretrata rispetto agli Usa ma anche rispetto a tutta l’Europa occidentale. Le ragioni sono culturali e politiche, sono le stesse per cui siamo arrivati tardi al suffragio femminile o al nuovo diritto di famiglia. Per quanto riguarda molto più specificamente la gestazione per altri, nella scelta di portare a termine un gravidanza per altri c’è il riflesso, penso, di una cultura a volte troppo individualista, ma anche più portata a riconoscere la libertà delle scelte e il valore dell’iniziativa personale. Queste donne dicono: “È una decisione mia, ho preso l’impegno di portare avanti una gravidanza per un'altra coppia, ci credo davvero, andrò fino in fondo”.



E’ passato del tempo dalla sua esperienza iniziale, c’è una differenza tra un prima e un oggi?

Famiglie Arcobaleno ha avuto il merito di realizzare un notevole cambiamento culturale, di cui si può andare fieri. In appena dieci anni ha contribuito a portare fino al Parlamento una legge sui diritti civili degli omosessuali. Abbiamo una grande forza: siamo tante famiglie, sempre di più, e ci impegniamo soprattutto per i nostri figli. E questo conta molto in un paese come il nostro, in un paese familista come l’Italia. Il pericolo, per noi, è infatti quello del conformismo. Ma non è detto che costruire una famiglia e ottenere che venga riconosciuta significhi rinunciare a innovare la forma-famiglia.



Secondo lei è molto lo scollamento tra la politica e la realtà sociale?

La società è cambiata, la politica molto meno. Nella prima c’è ora un atteggiamento di apertura, un approccio molto più simpatetico di un tempo. Però il fattore decisivo è l’esperienza. Dove le nostre famiglie esistono e sono visibili, cambia radicalmente la risposta sociale; ma dato che in percentuale siamo pochi, ci sono vaste aree della popolazione che non ci conoscono e quindi rischiano di rispondere all’appello di una destra ignorante e retriva, che intende rafforzare i peggiori stereotipi sull’omosessualità.



E cosa può dirmi riguardo all’eventualità che le coppie omosessuali possano attuare la gestazione per altri nei paesi poveri e sfruttare le donne, visto che lì non ci sono leggi adeguate?

Attualmente questi paesi hanno chiuso i battenti alle coppie omosessuali. In Famiglie Arcobaleno, gli aspiranti padri vanno quasi senza eccezioni nei paesi che offrono migliori garanzie etiche, cioè gli Stati Uniti e il Canada. A differenza di gran parte dei genitori eterosessuali che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri (e che sono, come ho detto, la grandissima maggioranza delle coppie), questi padri gay non nascondono il percorso compiuto, raccontano con schiettezza ai figli la storia della loro nascita (sarebbe difficile nasconderla!), e di solito mantengono rapporti affettuosi con la portatrice e con la donatrice d’ovulo, verso cui sentono un’intensa gratitudine. Sono loro che possono dare l’esempio di un modello positivo, relazionale, “caldo”, rispettoso di tutte le parti in causa e delle loro scelte.

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