Sabato, 08/01/2022 - Mi sono a lungo domandata da quali parole partire per scrivere queste righe, e alla fine, forse per deformazione legata alla mia prima laurea, ho deciso di partire dalle parole contenute in un atto giudiziario.
“È bene partire da un dato che può apparire paradossale rispetto l’esito mortale: è la madre che porta il figlio dal padre, alle 13 del 1 gennaio”, un gesto “del tutto incompatibile con qualsiasi allarme che un precedente atteggiamento del padre avrebbe potuto destare nella donna”.
Partendo da questo presupposto, il Gip di Varese deduce che il figlicidio e il tentato femminicidio commessi dal padre di Daniele erano del tutto imprevedibili. E se una cosa è imprevedibile ne consegue implicitamente che non c’era nulla che si potesse fare per impedirla; ne consegue che nessuno avrebbe potuto in alcun modo evitare che accadesse quanto invero accaduto. E se da un lato questa conclusione è angosciante, perché evidenzia l’impotenza di fronte a qualcosa più grande di noi, dall’altro lato è assai rassicurante per chi preferisce scaricare ogni responsabilità.
“Ora resterai da sola”. Queste sono le ultime parole che il padre di Elena e Diego scrisse alla loro mamma prima di ucciderli. Anche in quel caso i bambini si trovavano per qualche giorno con lui. E anche in quel caso la madre di quei bambini aveva deciso di separarsi da suo marito. “Ciao nanetti” – scrisse loro Daniela qualche giorno dopo, accompagnando con questa lettera le loro piccole bare -. “Non riesco ancora a realizzare che non potrò più rivedervi, abbracciarvi, sentire la vostra voce o il suono delle vostre risate, ma soprattutto quell’intercalare ‘mamma’ che sentivo nominare miliardi di volte al giorno e che ora non sentirò mai più”. Una parola di sole cinque lettere, così semplice da essere spesso la prima che pronunciamo, che diventa impossibile non sentire più. Avete mai riflettuto che nella nostra lingua non esiste una parola che definisca un genitore che perde un figlio? Si può essere orfani o vedovi, perfino infanticidi, ma non esiste una parola che definisca la condizione di un genitore che contro la propria volontà perde un figlio o una figlia. È qualcosa che consideriamo così profondamente innaturale da non averlo voluto definire.
“Le finalità protettive erano orientate unicamente al sostegno educativo e psicologico del bambino, a fronte della esasperata conflittualità della coppia genitoriale”. Queste sono le parole con cui la Corte di Cassazione assolse nel 2015 dall’accusa di omicidio colposo gli operatori/le operatrici dei servizi sociali che avevano in carico Federico al fine di garantire il suo sviluppo “in presenza di genitori inadeguati”. Dei genitori di Federico, sua madre aveva lasciato suo padre e aveva denunciato numerose volte le sue minacce e i suoi atteggiamenti violenti verso di lei e verso il bambino; suo padre ha ucciso Federico durante un incontro protetto all’interno della Asl. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la conflittualità; si tratta di violenza unilaterale. In questo caso non solo la giustizia italiana ha però affermato che quanto commesso da questo padre era imprevedibile e pertanto non vi era da parte dell’assistenza pubblica un obbligo di tutela dell’incolumità fisica del bambino, ma anche la giustizia europea – che in altri casi ha più volte condannato l’Italia – ha ritenuto non ci fossero i presupposti per riconoscere una violazione da parte dello Stato dei suoi obblighi procedurali (Sentenza CEDU dell’11/05/2021 Causa Penati contro Italia).
“In caso di dubbio scegliete ciò che è giusto”. Queste invece sono parole di Karl Kraus, citate da uno dei giudici della Corte europea che dissente dalla decisione della maggioranza sulla causa Penati contro Italia. “Si tratta di una madre che aveva affidato suo figlio allo Stato, e che quest’ultimo gli ha restituito morto”. Antonella non aveva cioè altra scelta che affidare suo figlio a quello Stato che impone la bigenitorialità anche in caso di violenze e minacce da parte del padre. Nell’illusoria e infondata idea che la bigenitorialità sia sempre la scelta migliore. Nella criminale idea che un uomo violento può comunque essere un buon padre.
Tanti altri bambini e bambine – troppi, ma anche solo uno sarebbe troppo – vengono uccisi dal loro padre per punire la loro madre, la donna che li ha messi al mondo. Per farla rimanere sola, come ha scritto il padre di Elena e Diego. Perché uccidendo i loro figli, questi uomini uccidono anche le loro madri, anche se la biologia le fa continuare a respirare.
Ma se le uccisioni di questi bambini e queste bambine non erano prevedibili, come afferma oggi il Gip di Varese, allora cosa poteva fare lo Stato di cui questi/e bambini/e, e di cui queste madri, erano cittadine?
“Torniamo a ripetere che non servono nuove leggi, ma un cambiamento radicale nell’applicazione delle misure esistenti”, afferma la presidente di D.i.Re. Donne in rete contro la violenza Antonella Veltri. “Ma soprattutto la violenza maschile contro le donne deve diventare una priorità politica e istituzionale”.
Ed è qui che sta il punto.
Il punto sta nel comprendere che la violenza maschile contro le donne – di cui i figlicidi sono la più spregevole forma – non appartiene a uomini pazzi, malati o, peggio, stranieri. Non è una tragedia imprevista e imprevedibile contro cui nessuno può far niente. La violenza maschile contro le donne si annida e nasce dalla nostra cultura, da quella cultura che insegna ai maschi il dominio e il senso di proprietà. “I miei figli”: questo ripeteva il padre assassino di Elena e Diego. “I miei figli”. Non a caso in queste righe non ho voluto indicare i cognomi di questi bambini, perché proprio in quel cognome – il cognome paterno – sta il simbolo più evidente e più istituzionalmente accettato di quella proprietà. E allora, se il problema è culturale, vuol dire che è un problema che ci riguarda tutte e tutti – e che riguarda lo Stato per primo - e che parte proprio dalle parole che usiamo ogni giorno, dai piccoli gesti di ogni giorno, da ciò che diamo per scontato, da ciò che non reputiamo importante perché c’è ben altro a cui pensare. Tanto la cronaca di un femminicidio o figlicidio dura un attimo, poi possiamo cambiare canale e vedere il risultato della partita di calcio.
Le ultime parole che scelgo di ricordare sono quelle di Daniela, mamma di Elena e Diego. “Sono stata fortunata a essere la vostra mamma. […] Finché saprò ancora emozionarmi sentendo il vostro nome, Elena e Diego, saprò che questa enorme violenza e ingiustizia non ha vinto. Mi mancherete tantissimo”.
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