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Pacifisti e non talebani

Pacifisti e non talebani

Ancora guerra - Gli orrori infiniti del mondo che va in fiamme e le responsabilità dell'Occidente. Il 'che fare' propositivo e non ideologico del movimento non violento

Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2006

Doris Lessing, ha scritto una prefazione sorprendente alla nuova edizione del vecchio scandalo letterario di D.H. Lawrence "L'amante di Lady Chatterley". La scrittrice inglese particolarmente amata dalle donne sostiene che, se la lady inglese e il suo guardiacaccia scorazzavano nudi per i campi e si abbandonavano a giochi fantasiosi come intrecciare fiori ai peli pubici, non si trattava di pornografia se non per la cultura perbenista del tempo. Se, infatti, si leggesse il romanzo con occhi non fasciati di moralismo, non sfuggirebbe che, dietro le trasgressioni sessuali, c'è, sullo sfondo, la contestazione della prima guerra mondiale.
Neppure la nostra generazione di femministe moderne si sarebbe accorta che la proposta del "fucking amorevole" intendeva salvare l'Inghilterra dal pericolo di ripetere "gli orrori, i corpi in putrefazione, l'insensata carneficina delle trincee (il marito della protagonista era invalido di
guerra), la miseria e lo squallore del dopoguerra". Un messaggio pacifista incompreso, dunque? Probabilmente sì. Comunque Doris è buona testimone del fatto che il 2006 attribuisce meno importanza al sesso scabroso e vede come scandalo piuttosto la guerra. La guerra, che è così poco lontana dall'abbandonare la storia, come speravano i nostri slogan.
Eppure, non c'è più nessuno che osi dichiarare, come Tomaso Marinetti, che è igiene del mondo e anche i militari sostengono di praticare un mestiere di morte per sole finalità di pace. La guerra non ha più l'"onore delle armi" e non è più espressione autentica della virilità, non solo perché le
donne fanno parte degli eserciti, ma perché l'evoluzione della belligeranza non consente più di barare. D'altra parte, nei paesi evoluti e non evoluti, i programmi scolastici non insegnano la negatività distruttiva della belligeranza usata per risolvere i problemi dei popoli. La guerra è sempre fallimentare. Redditizio, in compenso, è il commercio delle armi. Dalla fionda al complesso nucleare, chimico e biobatteriologico si è realizzato un "progresso" tecnologico imponente e contemporaneamente si è verificato il capovolgimento delle antiche strategie: la liturgia cerimoniale della dichiarazione di guerra portata da ambasciatori che sarebbe stato delitto aggredire, la propaganda per la salvezza della "patria" (oh, l'uso orrendo del nome del padre!), lo schieramento di truppe - con insegne e divise di diversi colori per evitare l'incresciosa carneficina dei commilitoni - in un campo detto "di battaglia" dove chi ne dava di più risultava "vincitore" sono sostituiti da pratiche dirette di ostilità sempre definita "difensiva" dalle parti interessate (governi, gruppi patriottici e terroristici, milizie mercenarie, ma anche servizi segreti e poteri più o meno occulti a sostegno di materie prime o logistiche economiche). Con una caratteristica inedita, quella di individuare il nemico quasi esclusivamente nella popolazione civile.
Come è incominciata quest'ultima guerra del Libano? Con tre militari israeliani uccisi e uno catturato come ostaggio (non definibile correttamente come "prigioniero" perché non c'era la guerra); non sappiamo quanti siano stati gli hezbollah uccisi per vendicare i quattro, ma
certamente pochi rispetto alla "sproporzionata" strage di civili che ne è seguita. D'altra parte così è stato da quando l'arma aeronautica si è inserita nelle strategie belliche e la seconda guerra mondiale, con i bombardamenti in Europa e Hiroshima, ha ampiamente illustrato la vera natura della guerra.
Oggi ci risiamo: i conflitti, per quanto ineliminabili dalle dinamiche umane, non sono destinati ad esplodere in violenza armata. Basta prevenire le conseguenze che possono diventare irrimediabili ed estendersi senza limiti.
Il conflitto israelo-palestinese abita il Medioriente da sessant'anni. Si era compreso subito che chi si doveva spostare per fare posto ad altri senza neppure i risarcimenti previsti dalle Nazioni Unite non avrebbe mai riconosciuto il diritto dell'altro; tuttavia le trattative sono state sempre minimali, le risoluzioni approvate non rispettate, le iniziative concrete paralizzate. A prova della debolezza di un'Onu condizionata dai governi forti. Arafat e Sharon, ormai lontani nella storia, possono
perfino essere rimpianti, ma i problemi si sono metastatizzati. L'attesa di tanti decenni confidando nei rinvii non giustifica nessuno. Anche perché il conflitto si allarga e Israele non intende aspettare che un Iran più forte e preparato guidi il jihad in tutti i territori islamizzati. Noi, ancor oggi, siamo divisi fra le ragioni di Israele e della Palestina: ci rendiamo conto che, sostenendo con tutte le migliori intenzioni le ragioni delle vittime, confermiamo la logica amico-nemico? Per manifestare
non la solidarietà a chi è oppresso (che è doverosa, ma 'facile'), bensì la volontà ferma di pace, occorre partire dalla conoscenza delle ragioni che si danno - a prescindere da ragioni e torti - i contendenti e cercare come pensare e dove inserire proposte di negoziato.
I movimenti pacifisti sono rimasti ancora una volta nell'equivoca posizione di confondere il 'dover essere' con l''essere'. Invece non si fa politica costruttiva se non si ha coscienza di dover partire dalla realtà. Pena il trovarsi sempre più in pochi o il diventare integralisti.
Una delle cose più gravi dei mesi scorsi è stata, infatti, la divisione lacerante in seno ai gruppi "nonviolenti"(di cui faccio parte) a proposito del rinnovo dei finanziamenti alla partecipazione italiana alla missione in Afganistan. Si era arrivati a definire "assassini" i parlamentari che hanno
votato il provvedimento (tutti, meno quattro ostinatamente contrari alla violenza di stato), ad assolvere i senatori che avevano votato la fiducia posta dal governo come se non fosse stata riconducibile al medesimo provvedimento e, ancor peggio, a dire che sarebbe meglio tornare al
"caimano".
Si deve il massimo rispetto per chi ha idee così forti sui principi; ma non sono eludibili due corollari: non viviamo in un mondo di pace (se negli anni in cui in Europa, dopo tanti secoli di massacri, si ha tregua stabile, nel resto del mondo ci sono state decine di guerre con milioni di morti, non si può dire che abbiamo goduto di vera pace) e non toccherà certamente alle nostre generazioni realizzare il miracolo della nonviolenza universale. Proprio la divisione tra i pacifisti è speculare al modello 'talebano' dell''io posseggo la verità e tutti gli altri sono nell'errore'. Quando
abbiamo fatto uscire dal Libano i connazionali era preferibile mandare una nave delle crociere Costa o della flotta militare? Che fare quando le presenze dell'Onu disarmate vengono uccise o fatte evacuare? Ci colpevolizza di più abbandonare il campo alla guerra interna o inviare forze armate di interposizione? E noi, donne? Fa impressione leggere che molte pacifiste israeliane hanno subito la paura dell'accerchiamento e approvato la guerra. Fa ancora più impressione vedere lo strazio delle vittime e dei tanti bambini uccisi. Ma fa anche impressione che nel nostro mondo femminile ci sia calo di tensione e, al massimo, si esprima deplorazione, dolore, reiterata solidarietà alle vittime, tipiche della vittimizzazione classica della donna-che-subisce, senza tentativi di sentirsi corresponsabili, senza vedere oltre, senza studiare le situazioni per sapere prevenire il peggio. I bambini di questa guerra, infatti, sono "tutti i bambini", anche i nostri: la loro innocenza non merita la perdita delle speranze nel futuro.
"Sorridete, dice Vasco Rossi, perché domani non ci sarà la guerra": è diventato difficile sorridere al futuro; ma resta la prima cosa da imparare a fare.
(01 settembre 2006)

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