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Otto marzo: progettare e ricordare percorsi di lotta e cambiamento

Otto marzo: progettare e ricordare percorsi di lotta e cambiamento

Secondo Adele Monica Patriarchi, docente di storia e filosofia, la Giornata Internazionale della Donna sollecita una riflessione sulle oggettive disparità lavorative, politiche e sociali cui le donne continuano a essere sottoposte.

Giovedi, 19/03/2015 -
Con Adele Monica Patriarchi, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico di Roma “Primo Levi”, abbiamo parlato della Giornata Internazionale della Donna. Del significato che essa ricoprirebbe ancora oggi e della possibilità che, sebbene a partire da una ricorrenza che non esclude una sua costitutiva e astratta meccanicità, si avvii una discussione sulla condizione femminile.



Dell’otto marzo, Adele ne ricorda la nascita all’interno della tradizione socialista. Ed è, questa, una consapevolezza storica da non dimenticare. Perché, se la giornata è istituita per combattere contro lo sfruttamento sul lavoro e la discriminazione sessuale, per la parità dei diritti e dei salari, eccolo il dibattito che ancora oggi la data deve sollecitare. Senza ricadere nella reiterazione nullificante propria delle giornate a tema, di cui Gramsci aveva ben colto il pericolo ai fini di una discussione critica, la Giornata Internazionale della Donna può assumere la capacità di «rifondare e saldare i legami tra le donne» nel segno di una condivisa efficacia di pensiero.

Essendo ancora non superate le ineguaglianze di genere – per riportare i casi più evidenti, la disoccupazione femminile è più elevata di quella maschile, le retribuzioni delle donne sono mediamente inferiori a quelle degli uomini –, l’otto marzo continua a costituirsi come data simbolica di discussione sulle discriminazioni di cui le donne sono oggetto. Allora, «l’abbandono della Giornata dovrebbe coincidere con il superamento di tale stato di ineguaglianza. Finché queste disparità continuano a esistere, permane la necessità di ricordare, di riflettere, di progettare percorsi di lotta per il loro superamento».



L’otto marzo è la Giornata Internazionale della Donna. Che significato ricopre per lei?



Quando si arriva in concomitanza delle «giornate a tema» mi torna in mente quanto scriveva nel 1918 sull’Avanti un Antonio Gramsci molto giovane: «Incomincia a diventare popolare l'istituzione anglosassone dei “giorni”… L'istituzione è simpatica. È schiettamente democratica, cioè capitalistica. Poiché i cittadini è meglio pensino il meno possibile durante gli affari e il lavoro, si è applicato il metodo Taylor al pensiero e ai ricordi. Per ogni movimento dello spirito, così come del corpo, il suo momento. Si stabilisce un calendario spirituale-politico-sociale». In generale, il festeggiamento delle giornate a tema mi appare un’operazione meccanica, cioè astratta rispetto alla presenza di un dibattito pubblico vivo e condiviso. In particolare, la discussione sulla condizione della donna è in gran parte relegata alle sfere dell’alta cultura, mentre langue nel quotidiano, salvo riattivarsi in concomitanza della pubblicizzazione di episodi di cronaca nera o giudiziaria. La vulgata di una presunta acquisizione della parità di genere ha prodotto una forma di deresponsabilizzazione diffusa: non c’è bisogno di turbare il menage familiare o la routine lavorativa durante l’anno, basta affrontare certi argomenti in prossimità della data stabilita per evitare i sensi di colpa. Le riflessioni a tempo e a tema confezionate per queste occasioni non possono essere più di un estemporaneo assemblaggio meccanico di esperienze e opinioni finalizzate a lavarsi la coscienza. Non vorrei, però, essere fraintesa. Non sto sostenendo che noi donne siamo diventate improvvisamente pigre rispetto ai nostri stessi diritti. L’Italia ha vissuto e vive una condizione particolare. A partire dagli anni ottanta, la diffusione della televisione commerciale ha veicolato un modello di femminilità legato unicamente alla bellezza fisica e alla capacità seduttiva. L’avvenenza è spacciata come l’indispensabile strumento di soddisfazione dell’uomo ricco e/o potente, capace di assicurare alla donna un posto di rilievo nella società. Una collocazione che lei, inetta, non è in grado di trovare da se stessa. Penso che il documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne sia su questo punto estremamente eloquente. L’industria culturale, e la televisione in modo particolare, in questi anni ha diffuso il proprio modello di femminilità e, contemporaneamente, rappresentato un ostacolo quasi insuperabile alla diffusione delle riflessioni delle donne sulla propria condizione. Il problema più serio è che molte giovani donne sono cresciute assorbendo tale modello e, inevitabilmente, vi si riconoscono. Tornando all’istituzione della Giornata Internazionale della Donna, bisogna ricordare come il «Woman’s Day» sia nato nel 1908 all’interno della tradizione socialista, per combattere contro lo sfruttamento del lavoro femminile, contro le discriminazioni sessuali e a favore del diritto di voto alle donne. Nonostante l’atteggiamento abulico con cui affrontiamo l’otto marzo, il valore di questo giorno rimane immutato e spero sempre che, come afferma Gramsci nell’articolo sopra indicato, «sapere che nello stesso momento tante folle pensano allo stesso argomento, si comunicano riflessioni e giudizi sul medesimo problema» possa ampliare «la visione della vita» e accrescere «l'intensità e l'efficacia del pensiero». Sta a noi rendere questa ricorrenza un rito, cioè fargli assumere la capacità di rifondare e saldare i legami tra le donne.



Tralasciando la commercializzazione e la volgarizzazione che spesso l’otto marzo subisce, ritiene che sia necessario continuare a riflettere sul senso della giornata?



Leggendo l’indagine del World Economic Forum Gender Gap Index, nel 2014 l’Italia si colloca al 69° posto, su 142 paesi analizzati, per uguaglianza di genere. Leggendo il Rapporto annuale dell’Istat del 2012 scopriamo che, percentualmente, le donne che si diplomano e si laureano sono più degli uomini. Tuttavia, il tasso di disoccupazione femminile è più elevato di quello maschile e il tasso di occupazione è decisamente inferiore. Le retribuzioni delle donne sono mediamente inferiori a quelle degli uomini, e il divario, complice la crisi economica, tende a crescere. Il tasso di inattività arriva addirittura a riguardare la metà della popolazione femminile in età lavorativa, che motiva la propria condizione prevalentemente con la necessità di accudire la famiglia. Inoltre le donne, occupate o meno, continuano ad assolvere in maniera prevalente le attività domestiche e quelle relative alla cura dei bambini e degli anziani. Ciò limita gli spazi di libertà o di svago a loro disposizione riducendo, ad esempio, la possibilità di partecipare ad attività politiche o culturali. Infine, leggendo il Rapporto del 2014 dell’Eures su Il femminicidio in Italia, si rileva come le donne uccise in modo violento siano progressivamente aumentate nel corso degli ultimi 25 anni, giungendo a essere il 35,7% del totale dei morti «consolidando un processo di femminilizzazione nella vittimologia dell'omicidio particolarmente accelerato». L’elencazione di questi dati ha, evidentemente, solo valore esemplificativo, perché in questa sede non si può pretendere di analizzare la complessità della condizione della donna nel nostro paese. Tuttavia, tali esempi sono necessari per rispondere alla domanda. La Giornata Internazionale della Donna è nata per riflettere sulla condizione della donna, per ricordare che esistono delle oggettive disparità lavorative, sociali e politiche, e per invitare le donne stesse a unirsi per combattere per il superamento delle discriminazioni di cui sono vittima. L’abbandono della Giornata dovrebbe coincidere con il superamento di tale stato di ineguaglianza. Finché queste disparità continuano a esistere, permane la necessità di ricordare, di riflettere, di progettare percorsi di lotta per il loro superamento.



L’otto marzo è la data simbolica delle battaglie che le donne hanno combattuto insieme. Il diritto al voto e la parità di genere per arrivare fino alle rivendicazioni di fine secolo, come il diritto all’aborto, la legge per il divorzio, il miglioramento delle condizioni sul lavoro. Crede che oggi sia ancora possibile parlare di un’azione femminile comune oltre le differenze, che siano queste politiche, culturali, nazionali o economiche?



In seguito alla diffusione del capitalismo globale e del pensiero neoliberale come pensiero unico, le conquiste del movimento femminile sono continuamente rimesse in discussione. Inoltre, l’attuale crisi economica vede peggiorare la condizione di «soggetto debole» delle donne. Sorge quindi la necessità di tenere fermi, di difendere continuamente i diritti faticosamente raggiunti. Su tale battaglia di posizione e su alcuni temi trasversali (la parità di genere, la violenza fisica e psicologica, il sostegno alla maternità, il welfare ecc.) è possibile fare convergere le donne in un percorso comune, indipendentemente dalle differenze politiche, sociali, culturali e religiose, che le contraddistinguono. Il movimento Se non ora quando? lo ha dimostrato. Tuttavia, vi sono questioni sulle quali le donne tenderanno a divergere: i temi bioetici (l’aborto, le pratiche anticoncezionali, le cure per la sterilità di coppia ecc.) e più recentemente la questione dei matrimoni omosessuali e dell’adozione per le coppie gay. Le immagini delle Sentinelle in piedi sono molto eloquenti in proposito. Infine, per quanto ciò appaia inattuale in un’epoca affettivamente legata al mito della fine delle ideologie, le donne sono divise anche, e nel mio caso soprattutto, dall’adesione a una filosofia politica. Come ricordavo precedentemente, la Giornata è nata all’interno della Seconda Internazionale che legge la condizione della donna in relazione alle trasformazioni del modo di produzione. Per chi proviene da questa tradizione, la liberazione della donna è legata indissolubilmente a un progetto complessivo di trasformazione della società sul piano economico, giuridico e culturale. Rimane molto esplicativo in proposito il motto di Camilla Ravera: «La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal Capitale».



Lei è docente di Storia e Filosofia presso il “Primo Levi”, liceo scientifico di Roma. Crede che nelle aule di scuola l’otto marzo possa essere occasione di confronto e discussione per le nuove generazioni?



Indipendentemente dalla data, capita che le materie che insegno siano foriere di discussioni sulla condizione della donna, sulla differenza di genere o le tematiche LGBT e normalmente rilevo la disponibilità dei miei studenti a confrontarsi su questi argomenti. Queste conversazioni sono, tuttavia, rese complesse dal fatto che i loro giudizi sono normalmente frutto o di emotivismo o dell’applicazione di principi generici e astratti. Ciò che pensano deriva dall’osservazione delle dinamiche familiari, dalle prime esperienze affettive, dalle relazioni con i loro coetanei, dall’influenza dell’industria culturale e dall’utilizzo dei social media. Quest’ultimo elemento assume una rilevanza sempre crescente nella loro formazione e stimola i giovani a rapide generalizzazioni e all’uso di un linguaggio retorico. La virtualizzazione dei rapporti sociali limita l’esperienza quotidiana e non consente di sperimentare la validità di affermazioni astratte che, non potendo essere smentite nella prassi, rimangono tali e portano ad assumere un atteggiamento conformista dal punto di vista morale, etico e culturale. Non è un caso che sia rara fra i giovani la frequentazione di qualche associazione e ancora più rara la partecipazione attiva alla vita di un partito politico. In questi dieci anni di insegnamento mi sono domandata spesso quale fosse l’atteggiamento più giusto da assumere in queste occasioni e solo tre mesi fa ho capito quale fosse uno dei miei limiti più evidenti. Nel corso di un incontro organizzato nella mia scuola, vengo invitata a parlare non come docente ma come testimone della sofferenza delle popolazioni soggette alla criminalità organizzata. Per la prima volta, in tanti anni, ho parlato dei miei sentimenti e delle mie esperienze davanti a degli studenti. Quello che non mi aspettavo è che venissero a ringraziarmi, a consolarmi, a piangere con me. Poco tempo dopo ho letto il libro di Elena Loewenthal intitolato Contro il giorno della memoria, in cui l’autrice osserva che moltissimi ebrei sopravvissuti all’Olocausto scelsero il silenzio perché si vergognavano della loro esperienza e indica nel processo ad Eichmann del 1961 il momento in cui i testimoni decisero di dare voce al proprio dolore. Il mio limite nell’affrontare il confronto con i giovani sulla condizione della donna sta in questo: nel non parlare del mio essere donna. Io non offro la mia esperienza ma così facendo non offro neanche un esempio, indipendentemente che esso sia da imitare o da rifiutare. Eppure le nuove generazioni di donne hanno veramente bisogno di esempi concreti con cui confrontarsi, dialogare, scontrarsi; per non sentirsi sole nella discriminazione, per non provare vergogna nel rapportarsi con un modello mediatico di femminilità che le vuole diverse da quelle che sono, perché si sentano libere di essere quello che sentono di essere. Perché non esiste un solo modo di essere donna, ma tanti modi quante sono le donne.



Di fronte alle evidenti crisi del neoliberismo, crede che i pensieri elaborati dalle donne possano rappresentare un’alternativa teorica e pratica?



La riflessione contemporanea è estremamente variegata e difficile da sintetizzare. Abbiamo un femminismo liberale, uno socialista, abbiamo teorie che si ispirano alla psicoanalisi o al post-strutturalismo. Tutte queste correnti sono unificate dall’impegno a eliminare la soggezione della donna ma si dividono sulle cause e sulle modalità necessarie per eliminarla. Molte di queste riflessioni sono legate da una comune istanza egualitaria e dall’idea che gli uomini tendano (per ragioni culturali, naturali, psicologiche, di potere ecc.) a non riconoscere i bisogni delle donne e a rifiutare le loro esperienze. Altre ritengono che l’enfasi sull’uguaglianza rischi di fare assumere alle donne pensieri e comportamenti maschili e che sia necessario porre l’accento sulla differenza (culturale, naturale, psicologica, simbolica ecc.) tra uomo e donna. L’esito inevitabile è la messa in discussione della separazione fra pubblico e privato, del patriarcato, della sessualità, delle modalità con cui avviene l’educazione dei figli, dell’ordine simbolico che caratterizza i comportamenti sociali, della razionalità e del linguaggio che viene utilizzato ecc. Oggetto di discussione sono il binomio natura/cultura e quello identità/differenza. Non si può disconoscere che ognuna di queste teorizzazioni porti con sé un desiderio di emancipazione che deve essere accolto e trattato con rispetto. Per la mia sensibilità, trovo molto attraente il pensiero della differenza e l’etica della cura. Riconosco in me la pratica del pensiero relazionale e faccio quotidianamente e dolorosamente esperienza di come in una società patriarcale ciò comporti il rischio di rinunciare al rapporto con il mondo esterno. Trovo eloquente la definizione di cura data da J.C. Tronto in Confini Morali: «Al livello più generale suggeriamo che la cura venga considerata una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro “mondo” in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel modo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della vita». Tuttavia, ritengo che le teorie sulla cura siano passibili dell’accusa di essenzialismo, che rischino di naturalizzare comportamenti che, come la stessa Joan Tronto riconosce, sono il frutto dell’esclusione delle donne dallo spazio pubblico operata nel Settecento. Aggiungerei: nello stesso periodo in cui nasce l’economia liberista, in cui si affermano il giusnaturalismo e il contrattualismo all’interno delle rivoluzioni borghesi, in cui si afferma la politica dell’alterità. E così l’etica della cura si presta a essere alternativamente correttivo del neoliberalismo o un martello contro l’individualismo liberale. Rimane il fatto che queste riflessioni non trovano posto negli scaffali delle librerie. Non costituiscono oggetto di dibattito condiviso e pubblico fra le donne. E il movimento femminile e femminista langue, soprattutto in Italia. Sono convinta del fatto che tale abulia sia per molti versi da imputare alla crisi del socialismo reale che ha sottratto forza propulsiva ai movimenti delle donne. E questo vale non solo da un punto di vista quantitativo, numerico; ma soprattutto perché - nel bene o nel male, nei fatti o nell’immaginario - il marxismo rappresentava un’alternativa a una società patriarcale, caratterizzata dallo sfruttamento e dalla discriminazione. Credo che la liberazione della donna comporti inevitabilmente la messa in discussione della struttura economica e delle sovrastrutture - giuridiche, culturali, religiose ecc. - che l’hanno assoggettata. E ciò viene fatto dalle donne, almeno su un piano teorico. Quello che manca è il rovesciamento nella prassi. E manca perché abbiamo perso la speranza che possa esistere un mondo diverso.

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