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OTTO MARZO 2008

OTTO MARZO 2008

Cosenza e le donne - L’otto marzo a Cosenza La Rete delle cosentine ha mostrato tutta la sua forte determinazione a contrastare un assalto ben organizzato e argomentato...

Loredana Nigri Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2008

L’otto marzo a Cosenza La Rete delle cosentine ha mostrato tutta la sua forte determinazione a contrastare un assalto ben organizzato e argomentato, che negli ultimi mesi ha rilanciato, attraverso autorevoli e inquieti anchormen, l’offensiva alla Legge 194.

Disorienta, ma non più di tanto, che da una persona così intelligente come Giuliano Ferrara, arrivi quello che è più in generale un attacco frontale sferrato alla possibilità e capacità delle persone di vivere liberamente e in armonia il proprio corpo,la sessualità e la salute. Ma Ferrara è stato l’ultimo in ordine di tempo ,a cui una schiera interminabile di persone ha passato il testimone.

Quel testimone somiglia al grimaldello finito sulle teste dei ragazzi della scuola di Bolzaneto. Alla pietra che ha lapidato donne colpevoli di infrangere la legge islamica. Alla lama affilata che incide la carne delle ragazzine in Africa. Alla mano che tormenta donne e bambini. Alla voce che urla e atterrisce all’interno della normalità orribile delle villette costruite alla periferia delle nostre città. Al foglio di via alla nigeriana venuta per un lavoro e finita sulla strada. Alla mano sotto la gonna alla barista rumena, di un qualsiasi bar dei paesini intorno a Cosenza. Alla televisione accesa ventiquattro ore su ventiquattro in cui seminude bambole di carne, occhieggiano a casalinghe imbolsite e furiose. Quel testimone vuole cucire la bocca,stringere le gambe e velare lo sguardo delle donne che non hanno paura.



IL FEMMINISMO A COSENZA / GLI ANNI SETTANTA



La manifestazione e poi il sit-in,strutturate in soli sei incontri, hanno forse scomposto una città assuefatta ma anche ormai insofferente al silenzio.

Una città media, una delle tante alla periferia dell’impero, consegnata mani e piedi all’impegno di facciata. Quello buono da utilizzare quale prebenda elettorale in qualche segreteria di partito e di qualunque schieramento. Una città addomesticata che attraverso la stampa locale e non solo , vive una politica premasticata sotto forma di gossip.

Che considera la politica come luogo da non frequentare. Chi tocca muore. La politica è una cosa sporca, che sporca. E tanti tra di noi, inorriditi si sono ritratti. Hanno abbandonato un terreno conquistato con una serie di sanguinose battaglie. Vere e proprie guerre ingaggiate contro l’ipocrisia del machismo meridionale, contro l’imposizione cattolica di un solo modo di vivere la vita e l’amore. Contro la cattiveria e l’ignoranza che come leve implacabili di una grande tenaglia stringe carni e menti femminili.

Quelle scorribande che a partire dagli anni settanta come un virus hanno contaminato strade, rioni,palazzi, sono penetrate ovunque, sotto forma di slogan urlati. Cacciati fuori dalla gola come fossero grumi di dolore e di speranza. La colpa al solito era delle finestre aperte, ma anche dei mariti distratti, dei fratelli imbarazzati, dei compagni compiacenti. Del resto poco si poteva per fermare certe voci che come punte acuminate puntavano direttamente alla testa e poi alla pancia delle cosentine.

L’onda è montata dai quartieri degradati, dallo Stadio a via Popilia a Casali fino al Centro storico, e poi dalle strade dove il ceto medio sceglieva di vivere, scrivendo sull’architettura stessa ,quella tensione per la mediocrità e l’intransigente conformismo, che tutto appiattisce e livella.

Di bocca in bocca voci spezzate si sono riannodate. Lingue con lingue. Teste con teste: il collettivo, l’autocoscienza,la sede a Santa Lucia, l’Università, il Consultorio, l’aborto.

Le donne,cosa sono le donne!

Cosenza non più come città slegata, lontana, ostaggio dei sud del mondo. Le femministe avevano scavato con i loro corpi una corsia privilegiata, una strada senza curve che portava in ogni città e paese d’Italia.

Liliana ed io andavamo a Roma in autostop. Avevamo venti anni e gambe forti. Decise.

A darci la direzione: la gioia di vivere. Insieme. Alle altre. Di vivere, vivere, vivere. Libere. Avevamo trovato questo tesoro della sorellanza, che rendeva più brillante l’amicizia e volevamo al pari di milioni di altre donne in tutto il mondo, comunicarlo e donarlo alle altre. Se me lo chiedessero a bruciapelo, ma se anche mi lasciassero un po’ di tempo per pensarci, io non saprei rispondere alla domanda “Cosa è stato il femminismo a Cosenza ?”. Posso rispondere cosa è stato per me, forse per le persone che mi volevano bene. Per il resto davvero non sono in grado di tracciare una traiettoria. Solo dei punti fulgidi o qualche volta neri qua e là.

Credo che il femminismo abbia in qualche modo salvato la vita a tante tra noi e non solo metaforicamente. Vite già tracciate dalla condizione di marginalità sociale, di povertà, di ignoranza, di provenienza.

Come quando cresci in un quartiere popolare, ma non ti senti pop e senti che le cose cominciano a mettersi subito male. Cerchi di uscire fuori, ma ti rendi conto che c’è un muro invisibile e invalicabile all’altezza di piazza Europa. Incorporeo, ma efficace e del tutto simile a quelli fatti erigere dalla previdente amministrazione comunale di Padova. Tenti di scavalcare questo muro, ma niente! Ti alleni allo sforzo, tuttavia, l’aspetto, la voce, l’abbigliamento, la postura sono troppo diversi, dissonanti. Ti tengono dall’altra parte. Ma poi capisci che per lo stigma sublime di quegli anni: - ”Sei femminista !” - non puoi più stare nel quartiere con quelli del quartiere, ma nemmeno andare incontro alla città, come desideri.

Il femminismo ha in qualche misura liberato da lacci e laccioli, magari di seta, anche donne di media e buona estrazione sociale, forse più delle altre ostaggio di una predestinazione ineludibile. Nell’incontro, le une con le altre: le povere con le ricche, le colte con le ignoranti, le belle con le brutte, le donne con le ragazze, si sono contraddittoriamente azzerate le differenze nell’eccezione discriminatoria e valorizzate le proprie storie personali, che tanto con quelle differenze avevano a che fare.

Il femminismo ha rappresentato una importante possibilità di andare oltre e in qualche modo di fondersi. Migliorando persone e cose che della differenza si sono giovate.

La trasversalità della giustizia nell’esaltazione e comunione delle differenze, è forse l’assunto principale del femminismo. Trentacinque anni fa,queste cose le avevamo già ben chiare. Erano cose importanti e noi molto giovani.

Quante energie si sono congelate col terrorismo. Quanta resistenza passiva ma incessante alla voglia di cambiare attraverso la nostra vita, tutto quello che gira intorno.

La madre cattiva. La sorellastra. La strega malefica. La tormentatrice.

L’ombra del femminino oscuro come gas venefico é entrata per le narici ed è arrivata al centro pulsante dei nostri gruppi, dove tutti i fluidi vitali convergono. Si è depositata su di esso, ha avvelenato le fonti e niente è stato più come prima. Poi più prosaicamente la crescita e l’assunzione di quella responsabilità individuale, che ha scacciato, come un insetto molesto davanti agli occhi, il collettivo,il pensiero plurale, a favore di un piccolo posto al sole.

Abbiamo finito di barattare il sole per un pezzo di vetro colorato. Forse è mancata la forza, il coraggio, la tenacia e lo sprezzo per il domani plurale. Le differenze, il voler tutto comprendere senza nulla lasciar scorrere, insomma tutte quelle cose che prima costituivano la nostra forza, ora ci impedivano di dare concretezza e forma sociale collettive alle nostre idee. Giocando al ribasso ci siamo accontentate della tempesta in un bicchiere. E ognuna ha fatto e sfatto famiglia. Lavorato, cresciuto i figli, studiato, portando dentro alla propria realtà una gemma, un pezzetto di quel tesoro che ci aveva fino allora tenute insieme. Poche, quasi nessuna ha pensato di donare o di trovare analoghe gemme e un altro tesoro nella politica. Molte di noi non l’hanno ritenuta adeguata alla complessità del nostro genere perché ambito per palati forti. Naturalmente sbagliavamo, ed ora è inutile pregare la Madonna del Pianto per entrare.

Abbiamo lasciato il fianco scoperto, la porta incustodita, ‘i piecuri aru lupu’. E i risultati che sono sotto gli occhi di tutti richiamano fortemente alla nostra responsabilità. Al comodo non immischiarsi.

A dirla tutta, magari manco ci avrebbero fatto entrare, ma come ebbe modo di dire una vecchia zia signorina di Sergio del Gaudio: ”Iu ummi vulia spusà, ma mancu mi l’hannu chiestu però!“

A conti fatti il femminismo ha mostrato nel mancato abbraccio con la politica un elemento di debolezza. Certo la volgarità e ordinarietà di certi ambienti politici, soprattutto locali, mal deponevano al confronto con le raffinate rivendicazioni delle donne. E sicuramente il femminismo in tante città, fenomeno intellettuale di nicchia, non ha avuto i numeri per spingere e sfondare le importanti porte romane della politica.





VOGLIO TUTTO

Naturalmente non è stato solo questo. L’analisi per forza di cose è personale ma soprattutto frammentaria. Tuttavia ognuna di noi si aspettava al varco per darsi una possibilità. Un ponte. Trenta e più anni di divisioni sono deflagrati e forse proprio quest’otto marzo 2008.

Sono le tre e mezza di mattina. Al solito non dormo. Mi giro dall’altra parte. Il corpo tratteggia con questo movimento un arco seghettato. Mi fa male la spalla. Sono ‘sfastidiata e ncazzata’. Di me che sono così ingrassata. Dell’ inconcludenza che penalizza le mie cose. Dell’assenza di gioia in tante, troppe giornate. Bilanci è meglio non farne. Soprattutto di notte. Ma non è tutto qui. Mi sono indebolita e so di aver lasciato qualcosa di me sottotraccia, terra, ed è necessario che io vada a riprenderla. Mi addormento e sogno che il mio solito autobus cambia tragitto e mi porta in un paese incantato, sospeso tra le nuvole e la terra come una ballerina sulle punte. Ma è San Fili, è il mio paese. Ma non è proprio San Fili. E’ diverso. Per strada le persone sembrano felici, sorridono e mi offrono un granato dai chicchi rossi e succosi. Lo afferro e lo mangio voracemente. È buonissimo. Come quelli che portava papà dal mercato. Mi sveglio. I segni si sono palesati. Ci sono. Voglio agire.

h.8 Mando lo stesso SMS a tutta una serie di persone:“Vogliamo fare qualcosa per questo otto marzo, in difesa della 194,e provare a riprenderci la parola?”

h.10 Elena mi chiama.”Guarda che intendiamo muoverci su questa cosa, ci vediamo alla sede di Emily” stasera alle 18.Vieni”.

h.17,30 Luciana passa a prendermi in ufficio. Mi fermo a comprare dei dolci. Cerco dello spumante, ma è già tardi è meglio che andiamo. In realtà ho paura di scadere nel patetico. Ma l’occasione è di quelle importanti. Per me di questo si tratta: di un ritorno alla luce. E va festeggiato. Sì pero c’è la parte rivendicativa, l’incazzatura per quanto sta succedendo. Ascolto il gruppetto della la CGIL hanno in mente una grande manifestazione e sono speranzosi di portare in piazza tante persone.

La stanza di Emily è piena di vita. Donne e uomini di buona volontà, ognuno esistenzialmente differente dall’altro. Ad una ad una arrivano le femministe del ’70. Il tempo ha lavorato sui nostri visi e sul nostro involucro. Ma gli occhi e la voce sono inequivocabilmente selvatici ed indomiti. Le ho lasciate che eravamo tutte figlie. Ora quasi tutte siamo anche madri. La stanza è un’officina, ma anche terreno se non di scontro sicuramente di confronto. Sono diffidente. Non vorrei che la cosa fosse strumentalizzata dalla politica. La mia solita spocchia. Elena è brava, dirige il traffico di interventi e fa si che anche le emozioni più forti vengano incanalate nel mare magnum del fare. Le studentesse dell’UDU si impegnano a curare la parte dell’animazione, faranno le streghe, ma a guardarle bene, già lo sembrano. Nella stanza si connettono dall’uno all’altra, fili di senso. Impegnate come siamo a ribadire, ridere e costruire non tutte ci rendiamo pienamente conto che è nata la Rete per l’otto marzo 2008 con Emily, Le donne ecologiste di Fata Morgana, le Magare di San Fili, il Centro antiviolenza Lanzino, le Donne Arcobaleno, la Kasbha, il Partito socialista, Le Sei Sorelle, sinistra euromediterranea, Sportello Pari Opportunità Unical, UDS, il Women’s studies Milly Villa, Nosside, Centro studi Gullo.

Poi, nel giro di dieci giorni, altre cinque riunioni perché ci sono tante, tante, tante idee, impegni, cose da fare e da precisare. Cose da cominciare. Alcuni fili da riannodare. Alcuni ponti per le nuove generazioni. Alcune idee stantie e alcune stanze polverose nel nostro tempo personale da arieggiare.

8.3.08 Ci siamo. Ieri insieme a Michela, a Luciana,Roberta e Tonino abbiamo lavorato tutto il pomeriggio agli striscioni. Avevo messo da parte tutta una serie di nastri e nastrini che avvolgevano i regali di parenti e amici per la casa nuova. Non speravo di utilizzarli in questo modo. Scriviamo con tulle e raso “IO SONO MIA”. Lo striscione è bellissimo. Orgogliose lo guardiamo e riguardiamo. Facciamo delle foto. Siamo felici e in ansia per la riuscita della giornata.

H 10 Arrivati in piazza ci uniamo agli altri. Lo striscione al pari di una starlette, viene fotografato più e più volte. Anche gli altri striscioni sono incredibili. Tra tutti quello di Ida con l’orlo in merletto. Quante donne! Ma anche uomini e ragazzi e slogan come fuoco. Attraversiamo rabbiose e felici il Corso che indolente osserva queste vecchie e nuove ragazze ugualmente incazzate.

“La felicità non è una utopia donna gridalo io sono mia! E’ forse lo slogan emblematico di una manifestazione che oltre a ribadire la netta contrarietà all’attacco alla 194, intende anche rimarcare lo sconfinamento, il tracimare delle donne nella politica guastata. Nella sporca politica. In quella che usa e tritura la vita delle persone in una melassa di cattolicesimo realmente disgustosa,lontana dal dolore e dal dispiacere che sentono le donne che non hanno alcuna possibilità di scelta.

H 12,30 Girotondi e canti in piazza dei Bruzi. Gli striscioni tutti particolarmente fantasiosi, sono sistemati uno accanto all’altro per terra. Le donne danzano intorno come in un rito propiziatorio.

H 16 Siamo pronte per il sit-in. Il grande gazebo è attrezzato. Sotto c’è il tavolo con il rotolo già srotolato delle idee che raccoglierà impressioni, desideri e sensazioni. Sta per raccogliere emozioni e speranze colorate. Le ragazze animano e le poesie di Francesca e Carmelina si alzano nel vento e ricadono intrufolandosi nelle orecchie dei camminanti sotto forma di suoni ammalianti. Le donne, le ragazze, gli uomini ci guardano curiosi. Qualcuno vuole fare un’offerta. Altri si fermano a scrivere. Anch’io scrivo. Scrivo una cosa con cui da tanto tempo o meglio da quando ho memoria, ho dovuto fare i conti: VOGLIO TUTTO. Siamo eccitate, felici, stanche tanto che qualcuna delle senior staziona sulle sedie dietro il tavolo.

H 19 non so com’è successo. Chi è stata la prima. Chi ha detto che si poteva fare. In fin dei conti non era una festa, ma un’occasione per mostrare la rabbia verso tutti i Ferrara del mondo. Eppure è successo. Senza essere invitata si è intrufolata signora gioia e ci ha fatto andare a gambe all’aria e non per modo di dire! Ricordo solo che ad un certo punto, Maria Francesca ha preso la scopa di saggina e ha fatto finta di volare. Ci ha chiamate a raccolta e da lì in poi non abbiamo capito più niente. Oppure abbiamo compreso tutto. A seconda dei punti di vista. Non saprei, mi è rimasta solo questa grande contentezza e il cuore sgelato. Certo le gambe mi dolevano e a furia di saltare sentivo l’impellenza di andare a bagno. Ma pazienza per una volta mi sono trattenuta e non è successo niente. Anzi ancora adesso che scrivo, a distanza di dieci giorni, i piedi sotto la scrivania si muovono ad un ritmo immaginario. Ma nemmeno tanto perché i miei piedi mi porteranno tra qualche giorno alla riunione della Rete delle Donne Consentine. Perché come già detto sono tante tante,tante le idee,le cose da fare e da precisare. Cose da continuare. Alcuni fili da rinforzare.

Su un ponte donne e ragazze in cammino contrario e ostinato si toccano le mani in movimento. E questo noi femministe del ’70 a loro lo dobbiamo. Lo dobbiamo però anche a noi stesse.





Loredana Nigri

Docente Unical

Assistente sociale Esperta

(18 marzo 2008)

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