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"Ostaggio della vallata", di Fausta Genziana Le Piane. Lettura critica.

Se l’esistenza tutta, percepita dal punto di vista degli esseri umani, è un caos irredimibile di ingiustizie e feroci sopraffazioni, una jungla che costringe a nascondere l’innocenza per proteggerla in un recinto segreto da mostrare soltanto a chi si

Martedi, 02/02/2021 - “Ostaggio della vallata”, di Fausta Genziana Le Piane. Lettura critica

Se l’esistenza tutta, percepita dal punto di vista degli esseri umani, è un caos irredimibile di ingiustizie e feroci sopraffazioni, una jungla che costringe a nascondere l’innocenza per proteggerla in un recinto segreto da mostrare soltanto a chi si ama, la poesia è invece lo spazio libero dove magicamente «si rinnovella / il candore del cuore». Questo sembra dire in sottotesto Fausta Genziana Le Piane a tutto il suo poderoso Ostaggio della vallata, dove si esprime a pieno titolo la ricchezza e la felicità di un pentagramma poetico giocato su una grande varietà di argomenti, temi, toni, esiti, variazioni e soluzioni che scaturiscono dalla sua capacità innata di disseminare lo sguardo nello sterminato “numero” dell’esistibile senza perdere mai l’impronta della voce originaria. La parola insegue la cosa e la raggiunge, manifestandola nella indefettibile imperfezione, per così dire, del suo duplice versante fisico e biologico/umano. Plasma i suoi versi «su fogli sparsi» per scrivere la vita inchiodandola al taglio chirurgico della forma, lucida di fuoco bianco come un cristallo di quarzo e, al contempo, stellare e precisa come il meccanismo di un orologio atomico.
Come si rappresenta, in quanto donna e anima creatrice? Un insieme di libertà, fierezza, solitudine, e amore per gli spazi infiniti, «gli occhi vigili e attenti / a verità dell’altrove». La poesia dunque è come la mangrovia:

Piedi nell’acqua e solide radici
per uccelli che non hanno
posto altrove.

La condizione della poesia è quella di avere «il capo volto all’altrove», di partecipare alle cose «in modo diverso». La poesia è un’oasi che accoglie la diversità più integrale e incompatibile, rispetto a un mondo deleterio di conformisti, per «rendere eterna la Bellezza» (non sfugga l’iniziale maiuscola) con la ferma volontà di «difendere la parola» e «impedire lo scacco», cioè la sconfitta della conoscenza e la resa al labirinto universale. Ansia metafisica e slancio di trascendenza le danno desiderio di avvitarsi al cielo per raggiungere la meta del viaggio «fino alla stanza del re» dove tutto potrà finalmente coincidere, tra apparenza e sostanza, nella rivelazione. Le verità amano nascondersi, sono insondabili come le profondità oceaniche dell’animo umano: il Logos è chiuso, catafratto, inchiavardato. Ma la poesia può, liberando il suo potenziale epifanico, aprire la scorza dei tegumenti e «catturare / la trasparenza» a dispetto della confusione più opaca, giacché opera di recto e di verso, cioè in luce e controluce, restituendo l’essenza della vita vissuta ma anche la filigrana della “non vita” con le occasioni mancate e le possibilità inespresse. Ne emerge l’autoritratto di un’anima che «non riposa», divorata dall’inquietudine di seguire la «traiettoria» dell’oscurità per catturare la scintilla della luce nell’attimo impercettibile che «separa / il giorno dalla notte». Un’anima bella di tenebroso mistero, abitata da una presenza e consapevole della propria irriducibile diversità:

Il nodo delle mani non si allenta.
Sciogli i miei capelli,
ma non l’enigma che è in me.

Il cuore è un cantiere di lavori perennemente in corso e l’autrice esercita il suo work in progress anche scavando a mani nude nella sabbia del deserto per cercare le «radici nascoste» della propria anima. Non a caso silenzio e solitudine sono gli assi cartesiani di una percezione dove «le parole coprono il vuoto» e «il silenzio riveste la pienezza». Scrive infatti di «parola viva / scuoiata / di solitudine muta», che poi è una specie di self portrait della poetica in atto dentro questo libro. Ecco ad esempio lo spazio misurato dal vuoto e dal silenzio:

STANZA VUOTA

In questo silenzio
la mia solitudine
è uno sparo nella mente.

Oppure la presenza dell’assenza, lo specchio dell’io, il Sé come doppio che ci fa compagnia anche quando siamo soli (ché soli, poi, non siamo mai):

FURTO

Ho un buco nel cuore.
Non spiare:
gli occhi della solitudine
mi fissano.

La silloge ha inizio dalla dimensione noetica ed estetica dell’infinito, la smisura che assalta il pensiero dell’uomo e le sue “rappresentazioni” come un uragano che travolge la pioggia e compie «razzie» nella capacità che abbiamo di disporre del mondo, di crearlo e ordinarlo «tra i cinque punti cardinali / delle dita». L’infinito «si accovaccia / nel palmo della mano» e «aderisce alla carezza / che scardina i lineamenti del viso», sciogliendo la Gestalt con cui vediamo e ri-conosciamo le cose che sappiamo o crediamo di sapere. È una spirale che “riecheggia” l’essere fino al non essere e, mediante il lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi di rimbaudiana memoria, conduce al suono stesso dell’eternità. Da quella sorgente primordiale origina, come vissuto da sempre e per sempre, tutto ciò che le liriche successive a quella iniziale – nel ventaglio larghissimo delle emozioni attraversate – riescono poi a focalizzare. Aver sentito dentro sé le vibrazioni oceaniche dell’infinito rende congeniali alla dispersione dentro gli universi paralleli («M’illudo di essere qui / mentre mi sgrano nello spazio») e alla conseguente smaterializzazione («Non ho più corpo / ma anima lucente»). Occorre però disancorarsi dal «nido protetto / in fondo al mare» per essere disposti a perdersi, andando nel mistero alla deriva. Così fa il figlio che esce dall’«incavo / caldo / del nido materno» o che, cresciuto e pronto ad affrontare il mondo, lascia la mano del genitore.
Fausta Genziana Le Piane non fugge la palude del male vissuto, il dolore che non si estingue, non va più via – «sedimenta», «ristagna», «marcisce», «corrode». La vita è spietata, «inesorabilmente / si sgretola il verde» e ci si trova come «ancore di barche / attraccate alla riva – / dimenticate. / Dopo inutili viaggi / in terre lontane». C’è anzi spesso attiva, nella miscela alchemica dei reagenti, una forma di noluntà schopenhauriana, precisabile tra cupio dissolvi e volontà di esilio ed abbandono. Si legga ad esempio “Angolo”:

Lasciami in un angolo,
come cosa smarrita,
che a fatica respira.

Come valigia
che non conosca più meta,
non indovini più il suo contenuto,
non sappia più il suo peso.

Ed ecco, ancora su questo versante, la sensazione di essere un «violino stanco / di palpebre chiuse», la coscienza di «non avere più voglia di ricominciare», la voglia di sprofondare in una poltrona di velluto blu, colore del cielo e del mare, «con il peso / del corpo stanco, / dei ricordi, / di sillabe spezzate». L’esistenza si consuma nel sospiro eterno dell’aurora, ad «aspettare il sole», disposti e forse pronti a crocifiggersi «alla luce» e offrirsi al mondo in dono sacrificale. L’archetipo della donna «sola, di fronte al sole» che assorbe le «pagliuzze dorate» dei raggi e aiuta la rigenerazione della vita, dal cuore stesso della notte senza fine, è molto potente nell’economia simbolica del libro. Il lato positivo c’è in ogni cosa, magari nascosto, non evidente, legato al guizzo di un istante che scompare; occorre soltanto saperlo vedere, come il rovescio d’ala della rondine:

Indovino il chiaro della tua ala,
rondine:
brilla
per chi vuol cercare.

E insomma la passione per la Vita, sempre e malgrado tutto: come la fiamma che «non ha paura della cenere / e avvolge felice il ceppo» perché è scaturita appunto per bruciare, e non può fare altro. La vita di cui non si cela né la dolcezza, né la cruda ferocia: ad esempio quando parla di maternità scrive sia di «presenza calda / nel mio ventre buio», sia di «strappo violento», di «fenditura profonda», di «lacerazione dolente». Ma è pronta sempre a celebrare la potenza creatrice nel suo vulcanismo magmatico di calore, fuoco, sangue, getto, forma… dove ovviamente prevale su tutti il colore rosso. Alcuni lacerti emblematici: «Sbocco d’amore / come di sangue / a fiotti / caldo / rosso / violento»; «Officina rovente del cuore / dove si forgia l’angoscia / e la passione»; «Sono matassa di lana / tra le tue mani / rossa ti scaldo / (…) tra dita che febbrili / tessono tele colorate»; «L’amore è / una macchia rossa / fra me e te. / Si ritrae / poi si allarga / si spande. / Nel buio / splende». Il caldo del soffio vitale implica, come si nota, la plasticità metamorfica di una materia che è fluida al punto di modellarsi continuamente, e insieme abbastanza solida per consistere ogni volta in una forma. E in questa dialettica opera gran parte del mistero del quale siamo attori, tra essere e divenire: la sorgente dell’invisibile da cui emergono le cose che vediamo. Ecco, ancora, la donna-peonia che sboccia «per sprigionare l’intero suo profumo», e la terrestrità dionisiaca del duende, con la sua infrenabile espansione: «Tutta la notte / ho ballato / nuda / la rumba per te / (…) il ritmo saliva / la musica contorceva i fianchi / (…) i piedi nudi battevano la terra».
Fausta Genziana Le Piane veicola alla sua scrittura delle potenti dinamiche di liberazione da tutte le catene, per cui a un certo punto invoca – esempio supremo – la risurrezione dalla morte: «Signore, / resuscita Lazzaro!». Non a caso il titolo del libro è dato dal vento «ostaggio della vallata» che spezza la sua prigionia e, «trasportando con sé / frantumi di sere d’estate», si prepara a fare l’amore col mondo. Le inutili panie che ci invischiano “al di qua” devono essere oltrepassate in vista dell’essenza creaturale, quella del «sasso levigato / dal silenzio salvifico» che nasce dal sentirsi gettati nelle «acque tempestose del fiume», come piccola cosa nel turbine del divenire cosmico; e tuttavia capaci di sintonizzarsi con le profonde energie dello spirito:

genero cerchi concentrici
d’amore infinito.

Ciò significa fra l’altro uscire dalla prospettiva antropocentrica per arrivare a vedere il mondo dal punto di vista degli animali (ad esempio il ragno) o delle cose (ad esempio il libro di una biblioteca), fino a raggiungere la nudità originaria dell’esistenza, il puro essere di ciò che è, oltre ogni sovrastruttura, «senza più incanti, / senza più ombre. / La Vita in pieno giorno». Per capire l’alto valore di questa scrittura poetica basterebbe notare la delicatezza meravigliosa con cui approccia la tragedia di Hiroshima mediante una bambina di allora, Yoko, evocata mentre sta andando a scuola qualche attimo prima del boato e raggiunta, infine, nel suo «mondo di polvere»; o la stupenda, pregnante analogia utilizzata per scolpire l’essenza vitale del figlio:

veloce levriero del sorriso
che corri senza catene
nella tempesta della giovinezza.

Ma a impressionare è soprattutto la consonanza storica e l’estrema attualità di una lirica come “Macerie”, straordinaria per la sua capacità di focalizzare la coscienza di un mondo in crisi, nel suo equilibrio infranto – tra opere nefaste ed omissioni – e nel ricordo senza tempo dell’armonia perduta:

Come siamo giunti
a queste macerie?
A questo cumulo
di detriti polverosi?
Quale fu
il primo colpo di cannone sparato
che distrusse i vagoni?
Chi fu
il primo viaggiatore
che rinunziò a salire
e ad andare?
E poi
perché il treno non è più partito
e
smarrita
la stazione
si è spopolata?

Domande a cui soltanto la poesia, prima di qualunque analisi sociologica o politica, saprebbe idealmente rispondere, esercitando con fede la sua instancabile opera di nutrimento e di ricostruzione.

Marco Onofrio

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