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OLIMPIONICHE, NON PER CASO

OLIMPIONICHE, NON PER CASO

Aspettando Londra 2012 - Dall’antica Grecia alle Olimpiadi moderne, la storia sportiva delle donne. In salita

Emanuela Irace Lunedi, 30/07/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2012

L’uso dello sport per formare giovani utili alla guerra è una delle prime conquiste degli stati nazionali. Lo sapeva bene il barone de Coubertin cui si attribuisce l’erronea citazione del detto: “l’importante non è vincere ma partecipare”. Per l’aristocratico inventore dello scoutismo e delle Olimpiadi moderne, lo sport era la risposta più congrua per irreggimentare masse di giovani e addestrarli a quel che per molti era considerata una sorta di continuazione o preparazione alla guerra in tempo di pace. Un sistema in parte conosciuto fin dall’antichità. Basato su ideali di cameratismo e virilità che creano quella forma di amicizia superiore a tutte le altre, che ancora oggi contraddistingue molte delle relazioni tra maschi, dando a queste, una forza che tra donne è impensabile avere. Uno spirito di gruppo, di rete e di lealtà che nell’agonismo non lascia tossine o strascichi di invidia, preferendo al veleno della rivalsa quello dell’emulazione. Un rapporto sensuale senza sessualità. Un ammirazione estetica o intellettuale senza code di possessività. L’ideale di bellezza e forza degli eroi greci diventa stereotipo di un modello nazionalistico che, specie in Germania, si impone tra gli elementi costitutivi del futuro Stato unitario. Niente a che vedere con le origini delle gare sportive che nell’antica Grecia si chiamavano Agoni e che non erano altro che saggi atletici o equestri a sfondo religioso. Gare sportive in ricordo degli eroi morti. Giochi funebri in onore degli Dei. Come le “Olimpiadi” che ogni quattro anni celebravano Zeus, nella pianura dell’Elide, la cosiddetta Olimpia, sacra all’oracolo del padre degli dei e al dio Crono. Gare che si fanno risalire al 776 a.C. data a partire dalla quale si iniziano a registrare i nomi dei vincitori. Che celebrassero gli eroi o che fossero una tregua diplomatica - che trasferiva la competizione dal campo di battaglia a quello atletico - le Olimpiadi erano gare precluse alle donne. Bisogna aspettare i giochi di Parigi del 1900 per trovare le prime atlete. Timide e vestite di tutto punto e solo in alcune specialità, considerate non disdicevoli per le donne. Dall’iconografia sportiva si comprende lo spirito dei tempi e il clima di un’epoca di profondi cambiamenti. L’entrata in scena dei primi Stati nazionali post napoleonici, che competono seguendo una logica imperialista, apre la porta allo sport femminile. Sono le due principali dittature continentali: nazismo e fascismo a sdoganare il corpo delle donne. L’ideologia che sottende è quella della purezza. Salute e vigore fisico sono cardini necessari alla razza e alla sua progenie. Le donne sono fattrici, destinate a mettere al mondo figli e un corpo sano, temprato dall’atletica, è la migliore garanzia per una stirpe forte da spendere sui campi di battaglia. Il modello dominante di madre-moglie-esemplare o della donna bella il cui solo compito è donare piacere al maschio, convive ambiguamente con l’ideale di perfezione fisica derivato dallo sport. Per le donne è l’igiene ginnica, più che l’atletismo da competizione, a diventare base di un salutismo reazionario che non contempla diminutio, malattie o difetti fisici. Gli occhiali sono un tabù per le donne. E alle giovani impegnate in saggi o parate ginniche ne è vieto l’uso. Se per la politica e l’ideologia fascista lo sport al femminile è viatico contro la tendenza alla mediocrità perché: “annulla la bruttezza delle magre denutrite come delle grasse e obese”, per la società europea il predominio maschile resta di pertinenza dell’atleta uomo. Record e medaglie sono affari per uomini o meglio per donne “mascolinizzate”, con muscoli in evidenza e qualche volta baffi. In Gran Bretagna le olimpioniche sono chiamate “sportsmen” e ovunque le immagini di campionesse sottolineano la perdita di armonia e grazia femminile. In “Amore e ginnastica”, di Edmondo De Amicis, una delle protagoniste conferma lo stereotipo dominante: “La ginnastica per le ragazze ha anche i suoi inconvenienti. I maestri di ballo osservano che toglie la grazia e abitua ai movimenti scomposti. Così i maestri di pianoforte dicono che, quando tornano dalla palestra, le signorine non san più suonare. Anche i professori di disegno si lamentano”. Bisogna aspettare le Olimpiadi di Berlino del 1936 per vedere una italiana sul podio. È Ondina Valla la vincitrice della prima medaglia d’oro, nella specialità degli 80m a ostacoli, record rimasto imbattuto fino al 2004. Anticattolico e antiborghese, il regime nazista si serve del genio artistico della cineasta Leni Riefenstahl per celebrare il mito del Terzo Reich. Il vigore e la bellezza di un corpo agile che scala la vetta inaugura la serie dei cosiddetti film di montagna, cerniera culturale alla revanche di una nazione piegata dalla Prima guerra mondiale. La perfezione estetica di corpi seminudi che invadono lo schermo, tra natura incontaminata e pratiche ginniche, diventa simbolo e propaganda per la rigenerazione nazionale. Ma il clou viene raggiunto nel film ‘Olympia’, Capolavoro cinematografico considerato oggi negli Stati Uniti uno tra i dieci migliori film del mondo. Un’opera innovativa che sfrutta ogni possibile inquadratura, che inventa aerostati per lanciare telecamere a riprendere il gesto atletico, dando il via a una vera e propria rivoluzione cinematografica. È un film che esalta le vittorie alle Olimpiadi di Berlino del 1936 di donne e atleti di colore come Jesse Owens - quattro ori nell’atletica leggera e un record ancora imbattuto - e che per questo piace poco a Hitler. Con ‘Olympia’, Leni Riefenstahl impone un genere che non avrà uguali. Le donne entrano di diritto nel pantheon dello sport. L’ideale di bellezza greco, tanto caro all’estetismo germanico, viene rispettato e le atlete, per la prima volta vincenti sul grande schermo, mostreranno intatta la propria bellezza e femminilità, senza baffi.

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