Betlemme - La testimonianza di Jihan Anasta, direttrice del Bethlehem Peace Center
Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2008
C’è la Chiesa della Natività dove, secondo la tradizione cristiana, con una stella argentata è indicato il luogo dove sarebbe nato Gesù e, poco lontano, il sole illumina la pietra chiara di una moschea. L’armonia architettonica stride in una realtà di tensione costante. Al centro della grande piazza, Manger Square, sorge il Bethlehem Peace Center.
Se è vero che i luoghi parlano, in quel fazzoletto di Palestina si affollano i simboli della storia dell’uomo - remota e recente - carica di tutte le sue contraddizioni. Ma sempre intenzionata a rigenerarsi, anche nelle situazioni più estreme e disperate. E’ Betlemme, ferita dal Muro che la isola e la deprime economicamente ma che non le impedisce di sperare in un futuro di pace e democrazia. Per oltrepassare il check- point ci vuole un po’ di tempo. In fila, turisti o chiunque altro, attendono i controlli per entrare in città. E’ uno degli oltre 600 varchi disseminati lungo le centinaia di chilometri di cemento e fili spinati: è il Muro che attraversa la West Bank. ‘Ragioni di sicurezza’, si giustificano le autorità israeliane. L’effetto sicuro è stato l’aumento della disoccupazione e il progressivo impoverimento, replicano i palestinesi che lavoravano a Gerusalemme o vivevano grazie al turismo, e costretti in gran numero ad emigrare. Ma prima ancora che danno economico “il muro è un ostacolo psicologico: nessun orizzonte è uguale a nessun futuro”. Jihan Anasta, direttrice del Bethlehem Peace Center ( www.peacenter.org ), lavora molto con i bambini - che per effetto del Muro sono costretti in classi di 45/50 alunni - e osserva che “nei loro disegni c’è tanto nero, stanno crescendo con l’idea della militarizzazione, della chiusura, dei soldati”. Il Centro è un punto di riferimento importante in città e per i villaggi. Per le donne, come luogo di incontro e dialogo, e per la pace, con attività nazionali ed internazionali. Uno degli strumenti utilizzati è l’arte, come terapia e resistenza.
Per noi è davvero difficile capire come possiate conciliare la normalità quotidiana con i presidi militari, i check-point, il Muro che taglia il territorio….
Non è facile. La nostra non è una vita normale, ma dobbiamo credere che questa situazione sia temporanea e dobbiamo lavorare al meglio per preparare condizioni migliori per le future generazioni. E’ una responsabilità che non possiamo non assumerci, per non tornare indietro. Quindi dobbiamo penetrare il muro, dobbiamo penetrare le chiusure, sorridendo anche oltre le nostre possibilità di sopportazione. Dobbiamo concentrarci sui lati positivi e non pensare in negativo.
E’ possibile pensare ad una dimensione privata, pensare al proprio futuro, come donna e persona?
Il mio futuro e la mia nazione sono la stessa cosa. Una Palestina libera e democratica potrebbe essere… è un sogno. Era vicina durante i negoziati di Oslo, ma in questo periodo ci appare sempre più lontana. Però non abbiamo altro: questo sogno vive dentro di noi e nessuno può togliercelo o estirparlo, neppure questa difficile situazione. Certo, abbiamo alti e bassi… come tutte le persone normali. Quando siamo ottimisti pensiamo al futuro, allo Stato e invece, quando c’è lo sconforto, dobbiamo prenderci cura di noi e aspettare che passi.
Pensa che le donne possano giocare un ruolo particolare nella difficile situazione della Palestina?
Le donne sono vittime due volte. A causa della forte disoccupazione degli uomini devono lavorare ma non hanno istruzione e possono fare solo lavori umili. Inoltre in questo contesto gli uomini sono più violenti. Nonostante tutto le donne hanno fatto, stanno facendo e faranno delle cose speciali. Oggi devono essere protagoniste: sono psicologicamente e culturalmente più forti e ogni volta che viene data loro la possibilità e la forza riescono a fare un ottimo lavoro. Poi penso che lavorare in team come donne è più facile. Inoltre non dobbiamo dimenticare che le donne palestinesi sono le uniche nel mondo arabo e nel Medio Oriente - e sono state le prime - a lavorare, quindi il nostro ruolo è stato dominante. Dobbiamo valorizzare questa realtà e la nostra storia.
Lascia un Commento