Mondo/ Turchia e Kurdistan - I difficili negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa e il problema kurdo, visti attraverso gli occhi di due donne, Sefika (kurda) e Lerzan (turca)
Giulia Salvagni Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2005
Sefika e i profughi interni di Goc-Der
“Noi desideriamo che la Turchia entri in Europa, perché speriamo che la Cee convinca il governo turco a democratizzarsi, a smettere le persecuzioni nei nostri confronti”. Lo afferma Sefika Gurbuz, kurda, presidente di Goc-Der, l’associazione per lo sviluppo culturale e sociale dei profughi interni kurdi in Turchia.
Goc-Der è stata fondata nel 1997 a Istanbul, oggi conta otto filiali in tutto il Paese.
Secondo l’associazione i profughi sono 4 milioni, mentre il governo parla di poche migliaia. La definizione “profughi interni” basta da sola a rendere la drammaticità della situazione.
“Abbiamo vissuto venti anni di scontri durante i quali sono stati bruciati 3.428 villaggi kurdi – spiega Sefika -. Ancora oggi la tattica dei militari turchi è quella di nominare un kurdo come guardiano del villaggio e dargli regole che lo porteranno ad uccidere i suoi fratelli. Se si rifiuta, bruciano tutto il villaggio. Oppure, altra tattica è quella di evacuare i villaggi e poi dire ai media che l’azione è stata condotta dai guerriglieri del Pkk. Agli abitanti, quelli che non vengono uccisi all’istante, viene data la possibilità di scappare in pochissimo tempo, senza avere la possibilità di portarsi dietro nulla”.
Possibile che nonostante sia finita la guerra, da ormai sei anni, i soldati conducano ancora azioni del genere? Risponde Mehmet Yuksel, responsabile dell’associazione Uiki Italia: “Sì l’azione dei militari ha cambiato la forma ma non la sostanza. Ancora oggi, ogni tanto i villaggi vengono evacuati. Ma la Turchia fa anche attenzione alla sua immagine, a quello che potrebbe trapelare, perché vuole entrare in UE. In pratica le cose sono molto diverse da quello che il governo turco dice in Europa”.
Il burka con la bandiera europea
La negazione dell’identità viene praticata in ogni modo. Sefika ricorda che il sindacato unitario della scuola è stato costretto a chiudere finché non ha cambiato il suo statuto. Il governo l’ha costretto ad inserire una clausola che vieta nelle scuole di parlare la lingua kurda.
Sebbene dal 1991 non è più vietato per legge l’uso della lingua kurda nella vita quotidiana, questa costituisce sempre una fonte di gravi problemi. L’esempio più recente è dei primi di novembre, in occasione della visita a Abdullah Öcalan da parte di sua sorella, ai due è stato proibito parlare in kurdo.
Nelle scuole si possono tenere lezioni, oltre che in turco, anche in inglese, tedesco ed altre lingue. In base alle convenzioni di Losanna, le minoranze etniche possono fondare delle proprie scuole, ove insegnare la rispettiva lingua madre. Ma i kurdi, che essendo il 20% neanche sono una piccola minoranza, non possono avere la scuola in kurdo.
Tuttavia il Paese sta cominciando a presentare delle grosse contraddizioni. È il caso della Biennale d’Arte di Istanbul, dove è stato possibile esporre all’ingresso una grande installazione rappresentante una donna con un burka fatto col tessuto della bandiera europea e una scritta in kurdo, affinché il governo sia invogliato a mettersi in linea con i criteri di Copenaghen.
40 milioni di kurdi tra petrolio e bidonville
Di fatto la popolazione kurda non è solo in Turchia. Vivono sparpagliati tra Turchia, Iraq, Siria e Iran ben 40 milioni di kurdi. Tutti hanno sempre desiderato un’unica patria indipendente, ma la lingua, gli scontri politici e l’attuale gioco di alleanze tra Usa e Medio Oriente lo hanno reso impossibile. Nel corso della recente guerra in Iraq, il governo turco, alleato della Nato, ha temuto che nella confusione si potesse creare la condizione di un Kurdistan indipendente ricavato all’interno dell’Iraq che avrebbe di certo compreso le ricche città petrolifere di Mosul e Kirkuk (una volta facenti parte dell’Impero Ottomano, ma ancora oggi oggetto delle ambizioni dei nazionalisti turchi). Gli osservatori sostengono che la Turchia non avrebbe potuto tollerare il controllo kurdo di quei campi petroliferi perché avrebbe potuto dare ai kurdi il potere economico, e quindi l’indipendenza. Si devono a questo le ulteriori tensioni tra turchi e kurdi createsi durante l’ultimo conflitto in Iraq.
Nonostante la guerra sia ufficialmente terminata, ancora oggi, come conferma Sefika, si registrano casi di intere famiglie scacciate dalle loro abitazioni, interi villaggi svuotati ed incendiati. Sono operazioni di “pulizia etnica”, che provocano l’evacuazione di masse di sbandati senza più case né lavoro.
Sono kurdi che si concentrano intorno alle grandi città come Istanbul o Smirne. Metropoli dove sperano in qualche opportunità di lavoro o di trovare un po’ di cibo. Ma è difficile. La propaganda turca infierisce. In televisione, sui giornali, ovunque la gente kurda è associata ad aggettivi quali: inaffidabile, terrorista.
Una politica che serve a giustificare la presenza dei corpi speciali di polizia nel sudest della Turchia, dove in realtà vige ancora lo stato di guerra. Un mese fa, in ottobre, secondo il comando centrale dell'Hpg, l’ex Pkk (che oggi è su una posizione di resistenza attiva, dopo diversi cessate il fuoco unilaterali cui il governo ha risposto intensificando la repressione), ci sono state 41 operazioni condotte dall'esercito turco con centinaia di morti e feriti.
“Mi chiamo Lerzan e sono turca”
“In Turchia non c’è solo la ‘limitazione’ dei diritti umani, c’è una ‘violazione’ dei diritti umani, e il processo di democratizzazione non è ancora stato avviato”. È la denuncia di Lerzan Tascier, attivista turca del Ihd, l’associazione contro la violazione dei diritti umani in Turchia. Anche lei spera che l’ingresso in Europa del suo Paese porti più democrazia. “In Turchia non esiste libertà di stampa - insiste Lerzan-. Le conferenze sono proibite, così anche le manifestazioni. Quando queste si formano, i manifestanti vengono attaccati con molta violenza. Di recente i “lupi grigi” hanno aggredito degli studenti che facevano volantinaggio, ma la polizia ha assistito al linciaggio senza intervenire”.
L’Ihd è stata fondata nel 1986 da famiglie di detenuti politici turchi. In carcere i detenuti di sinistra ed i kurdi subiscono lo stesso trattamento, se si ammalano è vietato curarli. Regole che valgono anche per Abdullah Öcalan, attualmente confinato nel carcere dell’isola di Imrali nel Bosforo. Le sue condizioni di salute sono molto critiche ed i suoi avvocati, che sono stati interdetti dalla professione, non hanno la possibilità di parlargli. Nelle carceri è vietata la lettura dei giornali.
“Di recente sono stati forniti alcuni televisori sintonizzati solo su canali pornografici – racconta Lerzan -. I detenuti hanno cercato di reagire rifiutando quella specie di lavaggio del cervello”. (Continua la prossima settimana)
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