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Obiettivi del Millennio. Così vicini, così lontani

Obiettivi del Millennio. Così vicini, così lontani

Povertà e riscatto - Nell’Africa Subsahariana una donna su 16 rischia la vita, contro una su 3.600 nei paesi sviluppati. In Africa si muore soprattutto di emorragia, in Asia di anemia, in America Latina e paesi caraibici per problemi di pressione. A pa

Di Pietro Maria Elisa Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2008

A metà strada dalla scadenza degli Obiettivi del Millennio, lanciati dalle Nazioni Unite nel 2000 per realizzarli entro il 2015, il Rapporto 2007 illustra lo stato di attuazione. I progressi sono incoraggianti, ma ritardi e squilibri esigono interventi sostenuti e rafforzati per non deludere le aspettative vitali di milioni di persone. Il Sud del mondo resta svantaggiato, ma si ritiene possibile rispettare la scadenza per altre realtà regionali.
Nel 2006 gli esperti hanno riconosciuto che è necessario includere la dimensione di genere negli obiettivi per garantire risultati. Un’analisi critica, attraverso la lente del genere, svela un quadro realistico meno confortante che rende impensabile conseguire tutti gli otto obiettivi senza la parità. Il terzo è l’unico rivolto esplicitamente all’eguaglianza di genere e all’emancipazione femminile, ma è trasversale a tutti e li rafforza promuovendo istruzione, lavoro e partecipazione politica. Le connessioni sono evidenti con gli obiettivi di riduzione della mortalità infantile e miglioramento della salute materna. Altri sono in rapporto di reciprocità e strumentalità rispetto al terzo. Questa chiave di lettura evidenzia circoli infausti che alimentano spirali di povertà e mantengono i paesi nel sottosviluppo, trasmettendo disagio, fame, malattia, mancanza di istruzione e opportunità di lavoro alle nuove generazioni.
Dimezzare la popolazione mondiale in condizioni di estrema indigenza è considerato un obiettivo raggiungibile, poiché è scesa da un terzo a un quinto tra il 1990 e il 2004. Tuttavia il successo non è equamente ripartito: è escluso che l’Africa Subsahariana arrivi alla meta; il Sud-est asiatico ha raddoppiato il tasso di povertà e ridotto il consumo pro-capite. La media statistica aumenta per la rapida crescita delle economie emergenti, soprattutto l’India, e la femminilizzazione della povertà resta un dato storico e attuale che condiziona le previsioni.
L’accesso delle donne al lavoro retribuito è lento: superano il 60% dei lavoratori non pagati, privi di previdenza e assistenza sociale. Miglioramenti parziali riguardano regioni in cui è recente l’ingresso delle giovani nel mercato del lavoro, ma circoscritto ad aree urbane. Il cambiamento è insignificante nel Nord Africa, dove nel lavoro retribuito il rapporto è di una donna ogni 4 uomini, come quindici anni fa. La maggioranza delle donne è relegata tra le pareti domestiche, impegnata in agricoltura e attività di sussistenza.
L’educazione primaria universale cresce nei paesi in via di sviluppo. Nel 2005 la scolarizzazione è salita all’88%, con riscontri in Africa. Restano 72 milioni di bambini, di cui 57% femmine, privi di istruzione di base, con abbandono scolastico e analfabetismo a livelli inaccettabili. L’esclusione colpisce l’infanzia poverissima delle zone rurali, con genitori non istruiti e tocca soprattutto le bambine, specialmente nel Sud-est asiatico e nelle ex colonie africane, dove prevalgono scuole private.
Ridurre le morti per maternità pare impossibile. Ogni anno oltre mezzo milione di donne muore per mancanza di assistenza e complicazioni curabili e prevenibili. L’assenza di prevenzione e pianificazione familiare causa un quarto dei decessi, compresi quelli per aborto. Nell’Africa Subsahariana una donna su 16 rischia la vita, contro una su 3.600 nei paesi sviluppati. In Africa si muore soprattutto di emorragia, in Asia di anemia, in America Latina e paesi caraibici per problemi di pressione. Madri bambine o adolescenti sono ancora la maggioranza nel Sud del mondo, a dispetto del calo di fertilità generale, e continuano ad esporre se stesse e i figli a rischio di morte e disabilità.
Il numero delle persone che soffrono inedia e malnutrizione si riduce, ma non significativamente nel Sud-est asiatico e nell’Africa sotto il Sahara. La mortalità infantile è complessivamente diminuita, grazie ad interventi contro malattie endemiche e infettive, ma i risultati giovano solo al 40% delle famiglie più ricche, in siti urbanizzati e condannano la popolazione africana. L’Aids è la malattia che miete il maggior numero di vittime: 2,9 milioni nel 2006, di cui 48% donne, con mortalità infantile duplicata. Si propone anche un problema di cura e assistenza senza precedenti: 15,2 milioni di bambini hanno perso entrambi i genitori di HIV. In totale si prevede entro il 2015 la perdita di 30 milioni di bambini, che sottrarrà ai paesi più poveri il loro autentico potenziale.
Riguardo alla sostenibilità ambientale, la comunità internazionale riconosce da oltre un ventennio il ruolo delle donne nella conservazione e nella tutela dell’ambiente. Nelle comunità rurali sono depositarie di pratiche millenarie di sapienza ecologica, il cui contributo giova alla produttività e alla fertilità dei suoli, perciò è necessario che esercitino diritti di proprietà e uso di risorse e territori. L’accesso alle risorse, compresa l’acqua, e ai servizi igienico-sanitari, resta collegato alla sostenibilità intesa nella sua triplice dimensione ambientale, sociale ed economica, base necessaria per l’esercizio dei fondamentali diritti umani. Si rammenta che le donne sono tra le prime sostenitrici dei movimenti contro la privatizzazione delle risorse e le più discriminate nell’accesso ad alimenti, beni e servizi in generale, benché abbiano il compito di gestirli e procurarli alle famiglie.
In ultimo, lo scarso incremento della partecipazione politica femminile. Sono donne il 30% di parlamentari solo in 19 paesi. Gli effetti sono rapidi dove ricorre il sistema delle quote, che ha duplicato le elette rispetto ai paesi che non le ammettono, persino in zone d’influenza islamica. Manca un trend positivo costante per cariche pubbliche e posizioni di potere: nel 2006 il record, con 13 donne capi di stato o di governo, già 12 nel 1995, solo 2 nel 2000.
Queste considerazioni confermano che il gap di genere è alla radice di ogni disuguaglianza, in uno scenario complesso su cui pesano altre insidie: migrazioni, crisi economiche, allarme ambientale, instabilità e disordine sociale, sicurezza, conflitti, urbanizzazione selvaggia. E’ un contesto in cui s’innescano nuove disuguaglianze ed esigenze, dalla soddisfazione di bisogni materiali a quella di accettazione sociale, identità, autostima e realizzazione. La sfida degli Obiettivi del Millennio ricalca dunque le sfide della globalizzazione: democratizzazione, dialogo interculturale, eguaglianza, equità nella distribuzione delle risorse e nella partecipazione ai benefici. Di qui la necessità di strategie coadiuvate da indicatori e strumenti specifici come il gender impact assessment, il gender budgeting e auditing, che possano sfatare il pregiudizio millenario per cui non vale la pena investire sulle donne. Sullo sfondo restano i dati non ufficiali: il valore del lavoro non pagato, della cura, le donne “assenti”, vittime di selezione del sesso, omicidio per dote, autoimmolazione per il lutto del marito, abbandono.

Foto di Maria Elisa Di Pietro


(18 marzo 2008)

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