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Obbligati a vivere

Obbligati a vivere

- Eutanasia, testamento biologico, accanimento terapeutico. Le ingerenze della Chiesa e i calcoli delle forze politiche impediscono in Italia di scegliere con dignità il fine vita

Stefania Friggeri Domenica, 05/07/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2015

 Oggi anche in Italia, paese a maggioranza cattolico, si levano voci che chiedono il riconoscimento dell’eutanasia. Dall’antichità fino al diciannovesimo secolo su questo tema si sono contrapposte due linee diverse: l’una, da Platone fino a Kant, negava la legittimità del suicidio; l’altra, da Seneca a Hume, lo vedeva come una soluzione razionale estrema. Ma oggi il quadro è cambiato, si è dissolta l’idea della morte “naturale”. Per la prima volta nella storia l’uomo può ritardare la morte e prolungare la vita: una nuova forma di vita artificiale dove la morte non è più un aldilà oltre la vita, dove la morte si lega alla vita. Molti infelici, intrappolati in una macchina che li riduce a puri pazienti, provano una realtà alienante: continuano a vivere, ma sono costretti a guardare la morte in faccia, ora dopo ora, minuto dopo minuto. Diverso, ma non meno drammatico, il caso di chi chiede una “buona morte” per sfuggire ad una condizione esistenziale che vive come intollerabile perché dietro la domanda di eutanasia c’è un tratto qualificante la nostra cultura: la centralità del soggetto, la libertà, il rispetto della dignità della persona, dunque il diritto di morire con dignità. E infatti collegare il termine “eutanasia” all’espressione “malato terminale” non corrisponde sempre al vero, come nel caso di Michele Troilo. Dal fratello Carlo, autore di “Liberi di morire. Una fine dignitosa nel paese dei diritti negati”, apprendiamo che “Michele ormai era rassegnato … Una sera però … ebbe un primo episodio di incontinenza. La sua badante dovette spogliarlo, lavarlo e metterlo a letto con un pannolone. Michele era un anziano scapolo, un uomo elegante, riservato, pudico. Non fu la malattia ma l’idea di dover ancora subire quell’umiliazione a spingerlo ad uscire sul terrazzo e a gettarsi nel vuoto. Perché per molti non ci può essere una vita senza dignità. Lo dice anche la nostra Costituzione, a proposito dell’accanimento terapeutico all’art. 32: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Secondo l’ISTAT in Italia si verificano 1.000 suicidi all’anno ed oltre 1.000 tentati suicidi di malati. Nel 2007 una ricerca condotta dall’Istituto Mario Negri di Milano su 84 centri di terapia intensiva rivelava che ogni anno su 30mila decessi il 62% era dovuto a desistenza terapeutica, cioè alla decisione dei rianimatori di ridurre, interrompere o non iniziare le terapie che sostengono le funzioni vitali. Sono decisioni assunte sulla base del quadro clinico, quando il malato non risponde più ai trattamenti ed ogni tentativo ulteriore sfocerebbe nell’accanimento terapeutico.



Accade che il medico a volte decida in totale solitudine, a volte insieme ai parenti, “un’operazione complessa e delicata, anche perché i familiari … non hanno sempre posizioni univoche e concordanti tra loro. Molto volte tendono ad anteporre le loro convinzioni personali, invece di sforzarsi a ricostruire la presunta volontà del loro congiunto” (Mario Riccio). Anche se il codice deontologico vieta l’accanimento terapeutico ci sono casi di “medicina difensiva” quando il medico ricorre a tutto l’armamentario terapeutico offerto dalle nuove e più sofisticate tecnologie per non essere accusato da un parente incapace di elaborare il lutto di non aver fatto tutto il possibile. Se dunque l’eutanasia non rimane clandestina (come ieri l’aborto: si fa ma non si dice), il medico rischia dai 7 ai 15 anni di galera per “omicidio del consenziente” (art. 579 del Codice penale), come è accaduto al dott. Riccio, accusato di aver assecondato la volontà di Piergiorgio Welby, colpevole insieme a lui di aver rifiutato la clandestinità, di aver posto all’attenzione del paese la mancanza di una regolamentazione su di una tematica ormai urgente. Se in Europa l’Olanda è stato il primo paese a depenalizzare chi ha procurato la morte del consenziente, in Italia il dibattito è fermo sostanzialmente al testamento biologico, anzi il governo ha emanato una circolare con cui definisce nulli i registri comunali dove i cittadini depositano il testamento biologico; e i media generalmente si adeguano lasciando credere che ci sia in ballo l’eutanasia, quando invece il testamento biologico è altra cosa, ovvero un documento con cui il cittadino intende comunicare al medico il suo volere, qualora gli accada di perdere la capacità di esprimersi. Ma, come nel caso della legge 194, il principio di autodeterminazione è inaccettabile per gli integralisti cattolici che ci vogliono tutti sottomessi alla volontà di Dio, volontà che loro hanno il privilegio di conoscere. Eppure l’aristocratico papa Pacelli nel lontano 1957, parlando agli anestesisti cattolici, aveva detto che, se la loro intenzione era puramente compassionevole, la somministrazione di farmaci antidolorifici che avrebbero potuto portare alla morte, era incolpevole; e papa Wojtyla, quando ha chiesto di lasciarlo “tornare al Padre”, è stato lasciato in pace. Con papa Francesco tutti si aspettano grandi novità nella Chiesa ma in verità l’arretratezza sul tema dei diritti civili nel nostro paese dipende non solo dall’influenza delle gerarchie vaticane ma anche dai calcoli interessati delle forze politiche che, per opportunismo più che per convinzione, ne seguono le direttive. Vedi il caso dell’eutanasia, dove il 64% dei cittadini, inascoltati in Parlamento, si è dichiarata favorevole all’eutanasia del consenziente, e non solo per il rifiuto di convivere col dolore, ma anche perché ormai il tema non interessa più solo gli intellettuali e i radicali: un numero sempre crescente di cittadini si ammala di Alzheimer, o di altre malattie comparabili, che li riducono ad una vita puramente biologica, non sempre cosciente, priva di relazioni interpersonali e di specificità umana. Una forma di vita alienata che non tutti accettano di sopportare e di infliggere ai propri cari.

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