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Nuovo o veterofemminismo?

Nuovo o veterofemminismo?

Movimenti in movimento - “La radicalità femminista o si fa proposta concreta o non realizza le proprie aspirazioni”

Giancarla Codrignani Lunedi, 17/12/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2012

Mentre il tempo passa e la crisi no, i rapporti istituzionali e politici peggiorano e anche la società civile non dà bei segnali. Ma molti gruppi di donne hanno alzato la testa. A Paestum, nel mega-incontro del femminismo 2012, erano convenute addirittura in 800! Pensando alle 36 primavere che ci distanziano dal primo convegno femminista nella stessa Paestum, appare evidente che chi ci è tornata ha contagiato positivamente anche le giovani che erano andate a portare la loro istanza di futuro con desideri e pensieri autonomi. C'è da sperare che tutte le differenze generazionali riconducano all'unica realtà di vivere nello stesso tempo.

Se si voleva portare la sfida femminista "al cuore della politica" - non a caso si era scelto il titolo: "Primum vivere, anche nella crisi: la rivoluzione necessaria" - non è detto che all'obiettivo sia corrisposto un progetto o, quanto meno, un programma di scelte adatto a dare al genere visibilità immediata in questi tempi di crisi economica e di debolezza politica preelettorale. Buona, comunque la proposta di Elisa Dal Re di continuare per tappe monotematiche a cui arrivare preparate.

Credo che anche a Siena, a Firenze, a Roma, Parma, Novara... dove in settembre si è discusso e ragionato di noi, si sia percepita la testardaggine di una "voglia di esserci e di contare, anche nei luoghi dove si decide"; il che - mentre è quasi ovvio nelle associazioni non decisamente femministe - non mi aspettavo che fosse esigenza di quel femminismo rinnovato delle più giovani e delle lavoratrici, che alla parola "rivoluzione" danno un significato riformatore. Le femministe storiche potranno accettarlo con il beneficio di inventario: stiamo andando avanti o indietro?

Che politica, economia, lavoro, democrazia siano ancora impiantate sull'ordine del "neutro", cioè dell'uomo che comprende anche la donna è vecchia storia. Se tutte dovessero pensare che il patriarcato è finito, sarebbe opportuno il richiamo a qualche cautela: ormai anche le più giovani sanno che non solo ci definiscono "una risorsa", ma per la parità di dirigenze, magistrature o segreterie politiche la tacita convenzione è che nulla cambi del "modello unico". Il guaio è che non tutte sanno quanto grandi siano i pericoli dell'omologazione e che neppure l'auspicato legame con le donne delle istituzioni può aprire grandi prospettive.

Le donne non sono certo, né giovani né vetero, né delle sprovvedute e hanno ragionato a lungo - perfino con i non molti gentiluomini che si interrogano sulla categoria "genere" - sulla soggettività politica, sull'organicità e omogeneità delle strutture di potere, sulla democrazia partecipata e perfino sul persistere della divisione sessuale del lavoro o sui limiti della rappresentanza; ma non si sono verificate modificazioni delle strutture. Certo, la cultura non è più la stessa, ma - anche se in nessun paese vigono statuti "femministi" - l'Italia è al fondo delle graduatorie europee per il tasso d'impiego femminile e molte donne si licenziano perché non possono pagare la badante al genitore non autosufficiente. Socialmente la cura, invece di essere una filosofia generalista, è ancora la serie di servizi che rende la donna un ammortizzatore. La "relazione" (a cui diamo un significato altro rispetto a quello comune dato alla parola) sta scadendo non solo nello squallore dello scambio fra sesso e potere o nel successo della mercificazione dei corpi; scade anche fra donne obbligate a competere. E si aggrava urtando la barriera di violenza e di villania delle rabbie continue di maschi e femmine contro la politica e le istituzioni: così viene inibito qualunque "partire da sé" in funzione di un qualunque bene comune. Chiedere di contare quando il significato della rappresentanza si è liquefatto nella rimozione autodistruttiva di Parlamento e istituzioni costituzionali rende problematico un "femminismo" che da dieci anni almeno ha percepito la cancellazione del proprio nome: nella corruzione italiana dire che "le amministratrici sono più oneste degli uomini" non significa altro che definirsi "una risorsa". La sessualità e la corporeità da cui partiamo (e dobbiamo partire) restano, oggi, separatismo e contraddicono la richiesta di autorità. Non abbiamo neppure più il lavoro e non poche lo lasciano perché non riescono a pagare una badante per un genitore invalido.

Il tempo per "negoziare" c'è stato, ma molte erano le teorie, nessun capitolo analizzava una "politica" femminista alternativa ad Aristotele. Le magistrate stanno diventando maggioranza nei tribunali, ma il diritto ci ospita come persone indifferenziate e l'omicidio esclude la figura specifica del femmicidio. Le sindache applicano leggi neutre ed erogano qualche sostegno ai gruppi femminili, senza essere impegnate a confrontarsi sulle strategie e le priorità del Comune. La radicalità femminista o si fa proposta concreta o non realizza le proprie aspirazioni.

Tutti in perdita, allora, anche questi nuovi tentativi? direi proprio di no. Basta rendersi conto che una vera "politica femminista" non l'abbiamo mai studiata veramente "per cambiare il mondo". Che ci sia la crisi non è una ragione per non incominciare. Anzi.

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