Venerdi, 28/12/2012 - Negli ultimi periodi siamo esposti ad informazioni che riguardano la violenza sulle donne perpetrata soprattutto da parte di conoscenti, coniugi, compagni o ex compagni, violenza che oggi risalta alla cronaca come se fosse un fenomeno nuovo ma che in realtà è solo rimasto sommerso per effetto di una censura androcentrata che, grazie a Dio, si sta allentando. Possiamo essere fiere (si fa per dire) che il muro della reticenza si sta abbattendo e, indipendentemente dai motivi mediatici che soggiacciono nella scelta delle notizie di cronaca, occorre percorrere la scia e mobilitarsi per attuare interventi efficaci affinché il fenomeno della violenza sulle donne, quanto meno, possa essere ridotto ai minimi termini.
Si potrebbe dire che per raggiungere tale scopo ogni strumento andrebbe più che bene ma, alcuni di essi, pur nella totale buona fede di chi li propone, non fanno altro che rinforzare quel meccanismo di stereotipia che conduce ad una visione generalista, massificata, categorizzata e, soprattutto, aggettivata della donna che conduce a reazioni anch’esse generalizzate. In molti casi si può parlare di un effetto iatrogeno, laddove la cura è più patogena della malattia.
Nel numero di novembre-dicembre della rivista “Psicologia Contemporanea” diretta da Anna Oliverio Ferraris appaiono in sequenza articoli scientifici che vanno dallo sfruttamento del corpo femminile nella pubblicità, con tanto di indagine statistica sulla modalità del consumo della donna negli spot; segue un articolo sulle cause dell’incremento di delitti passionali di cui le donne sono maggiormente le vittime; per finire con un documento su un nuovo disturbo psicologico definito “narcisismo fragile” le cui vittime sono soprattutto gli adolescenti di oggi.
Apprezzo le buone intenzioni scientifiche degli autori degli articoli in questione ma, un’osservazione analitica del significato metacomunicato denuncia una forte responsabilità delle donne relativamente a tali fenomeni.
Nel primo articolo (Chiamami donna-oggetto, di Adriano Zanacchi) emerge che “I messaggi veicolati dalla pubblicità che sviliscono o mercificano il corpo femminile contribuiscono a compromettere il rispetto verso le donne, possono favorire discriminazioni e subalternità a loro danno sul lavoro, nelle istituzioni, in politica, rinforzando una spirale di disprezzo e di dominio”. Qui il messaggio di sfondo tradisce le buone intenzioni in quanto se è vero che l’articolo denuncia una responsabilità diretta delle agenzie pubblicitarie è anche vero che chi viene mostrata è una donna, individuo in grado di intendere e volere. Sembra come se la donna (modella) fosse in balia del mondo pubblicitario, vittima di un potere sovrano (maschile) che, come un burattino, la manipola e la muove a suo piacimento; una immagine di sfruttamento a seguito di una caratteristica di debolezza.
Se, viceversa, si osserva il messaggio da un’altra angolazione e si suppone che queste modelle scelgano scientemente di esibirsi in uno sfondo maschilista, allora sono esse stesse la causa degli effetti devastanti su tutta la categoria (messaggio non tanto diverso da quello che ha affisso don Piero Corsi nelle bacheche della sua parrocchia).
Quindi: se non sono vittime sono colpevoli o, addirittura, entrambi.
Veniamo ora alla colpa delle donne. Storicamente la donna ha pagato sempre le colpe della cultura legata ai generi, dai tabu sessuali alle decisioni politiche di emarginazione e sfruttamento. L’immagine della donna colpevole che invia una determinata società è uno tra gli elementi caratterizzanti della risposta comportamentale del genere maschile, soprattutto quando la colpa è data aprioristicamente da fattori culturali dettati dalla consuetudine.
Nel successivo articolo di Gilda Scardaccione (Perché si uccide per amore) la criminologa tenta di offrire una spiegazione psicologica del fenomeno della violenza sulle donne passando nei meandri della psicologia dell’attaccamento. In sintesi, lo stile di attaccamento istaurato tra madre e figlio nei primi anni di vita che a sua volta genera i modelli operativi interni è la causa della motivazione primaria della violenza: la gelosia nelle sue manifestazioni patologiche. All’interno dell’articolo viene ripetuta più volte la parola “madre” in relazione alla figura di attaccamento fino ad aggettivarla con il termine “cattiva” laddove questa manifesti comportamenti disorientanti per il bambino che conducono ad un attaccamento insicuro. C’è da sottolineare che negli ambienti accademici, ormai da decenni, il termine “madre” è stato sostituito (forse in paesi più evoluti del nostro) con la parola neutra anglosassone “caregiver” proprio per non indurre le menti a stereotipi di genere. Che tale termine, nella nostra cultura abbia un rimando immediato a quella di “madre” è un problema storico-culturale, ma per ri-generare le coscienze occorre che si inizi da qualche parte e il linguaggio è il primo strumento, quello più incisivo, dominante e pacifico, applicabile nell’immediato. Continuare a sottolineare il binomio donna-madre nel cui interno vi è il legame semantico di “donna-esclusività di accudimento” rappresenta una fissità, se non una involuzione, nella logica del percorso verso la parità. Inoltre, si intravede di nuovo una tendenza alla colpevolizzazione. Ricondurre la violenza maschile alla modalità con la quale la donna-madre si relaziona al figlio, di nuovo sottrae responsabilità non solo a fattori più globali e forse più pervasivi ma, soprattutto al ruolo paterno in quanto incisivo e determinante nella costruzione delle personalità dei figli. Quindi: se gli uomini sono violenti la colpa (anche se inconscia) è delle madri.
In un altro articolo (I figli di Narciso crescono, di Mauro Fornaro) l’autore scrive: “Infatti la funzione paterna, quale elemento terzo rispetto alla coppia primaria madre-bambino/a, richiama all’alterità, alla diversità, esercitando una benefica azione di separazione e interdizione a fronte del rischio della chiusura simbiotica e (alla lunga “incestuosa”) madre-bambino/a. Pertanto, l’irriducibile alterità è rappresentata dalla figura del padre che costituisce una antidoto rispetto all’autoreferenzialità narcisistica, sia essa vissuta dal singolo o dalla coppia madre-bambino. E’ così che a partire dall’infanzia la valorizzazione della funzione paterna (la quale, beninteso, in difetto del padre reale può essere esercitata da una madre abbastanza “intelligente” da non chiudersi nel mero rispecchiamento con il figlio) dovrebbe comportare un vantaggio su due fronti: concorrere a delimitare il narcisismo grandioso, introducendo il senso del limite, per cui “non esisto solo io”; rinforzare il soggetto fragile del narcisismo da difetto abituando il piccolo all’incontro con l’altro, alla presenza corroborante della frustrazione, al gusto della conquista”.
Credo che in questo caso ogni mio commento sia superfluo ma la rabbia è tale da costringermi a sottolineare qualche aspetto deduttivo: le madri non sanno introdurre il senso del limite ai loro figli, non sanno incoraggiarli all’incontro con l’altro, non sanno produrre piccole frustrazioni educative, non sono in grado di far sviluppare un minimo di ambizione, non sono in grado di separarsi psicologicamente dai loro figli, producono una personalità narcisistica che sia questa della coppia madre-bambino o solo del bambino… a meno che non si è madri abbastanza “intelligenti”. L’autore descrive il narcisismo come un fenomeno in crescita, dobbiamo dedurre che le madri di ultima generazione non sono abbastanza “intelligenti”? Ma se provochiamo ai nostri figli tutti questi disturbi come mai gli uomini-padri non ci fanno da parte e mostrano quello che sanno fare?
Quindi: la colpa del narcisismo dei figli è delle madri. In questo caso non solo sono colpevoli ma anche inadeguate.
Per millenni la donna è stata “costretta” a prendersi cura dei figli, vuoi per natura che per cultura, oggi si scopre che non siamo in grado perché non abbastanza intelligenti; non siamo intelligenti per la sfera sociale della produzione (!) e neanche per quella della riproduzione.
Anche in questo caso comprendo le buone intenzioni dell’autore che ha voluto porre in risalto l’importanza del ruolo paterno nella crescita dei figli ma, l’utilizzo di una definizione così circoscritta per ambiti educativi, divide i ruoli genitoriali, li categorizza e li gerarchizza con una logica contraria ad una visione olistica degli apprendimenti ma, soprattutto ne attribuisce qualitativamente gli esiti.
Gli articoli che ho citato fanno parte di una rivista bimestrale a distribuzione nazionale destinata ad una divulgazione su larga scala ma soprattutto agli addetti ai lavori. Gli autori sono tutti professori universitari che, a mio modo di vedere, detengono un ruolo fondamentale nella formazione della cultura sociale e delle coscienze delle nuove generazioni; esercitano la loro professione in luoghi deputati alla ricerca, all’innovazione e quindi al progresso. Purtroppo mi capita spesso di scorgere nei testi stampati, che siano questi libri o pubblicazioni varie e di argomenti diversi, affermazioni metacomunicate che sottolineano una qualche connotazione negativa riguardo alla donna; anche quando si hanno nobili intenzioni, si cade inevitabilmente in un loop di pensiero androcentrico e svalutativo.
Mi rendo conto che i commenti sopra esposti possono risultare pensanti e provocatori ma la mia intenzione non è quella di svilire gli apporti della scienza (sarebbe perfino presuntuoso), ma di indurre ad una riflessione più analitica nel momento in cui i principi scientifici vengono divulgati. Sono convinta che gli stessi importanti contenuti avrebbero potuto essere esposti tenendo conto del messaggio di sfondo che, spesso, è quello più persuasivo in quanto non è assoggettato a filtri cognitivi. Sono stati proprio questi messaggi indiretti che, nei secoli, hanno creato la gerarchia di genere.
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