Martedi, 26/02/2019 - La scorsa settimana in consiglio regionale dell’Umbria si è discussa un’interrogazione del consigliere regionale Sergio De Vincenti (misto-Un) all’assessore alla Sanità, Luca Barberini, con la quale si era chiesto di “capire sulla base dell’operato di quale organismo scientifico, e soprattutto di quali elementi scientifici addizionali, il nostro governo regionale abbia stabilito che i pareri del Consiglio Superiore di Sanità e le linee di indirizzo ministeriali potessero essere superabili al punto di considerare estendibile l’impiego della RU486 anche in regime di day hospital nonostante il potenziale rischio per la salute della donna”.
La suddetta interrogazione è stata presentata dopo appena due mesi dalla delibera della giunta regionale umbra del 04-12-2018, n.1417, relativa all’avallo in via finale delle Linee guida per la somministrazione della RU486 in regime di day hospital, senza il ricovero di tre giorni previsto invece dalle Linee di indirizzo ministeriali.
Con tale delibera si è dato mandato ai direttori generali delle aziende sanitarie “di applicare in tutte le sedi che effettuano interruzione volontaria di gravidanza chirurgica anche la metodica farmacologica con la somministrazione della Ru486 in base a quanto indicato nel percorso assistenziale deliberato con DGR 863/2011”.
Quest’ultima delibera della giunta regionale legittimò l’avvio di una fase sperimentale, decisa per monitorare periodicamente in Umbria il percorso assistenziale per la donna che richiedeva l'interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) farmacologica tramite la RU486. Al termine di tale sperimentazione il Comitato tecnico scientifico umbro, dopo un confronto avviato con le Società scientifiche, le Associazione degli utenti e gli Organismi di pari opportunità, aveva promulgato le correlate Linee guida regionali relative all’applicazione della gestione in day hospital della RU486, escludendola in condizioni cliniche particolari o difficoltà logistiche di accesso alla struttura sanitaria e prevedendo in tali casi il regime di ricovero ordinario. La delibera della giunta regionale dello scorso dicembre, dopo sette anni, ha avallato in via finale tali Linee guida per la somministrazione della RU486 in regime di day hospital, come d’altronde già previsto dalla Regione Emilia Romagna, Toscana e Lazio.
All’interrogazione dell’on. De Vincenti l’assessore alla Sanità Barberini ha così risposto: ”La scelta della Giunta, con la delibera 1417 è stata ponderata nel pieno rispetto della salute della donna e della qualità della sua vita. Un principio già applicato da altre regioni italiane prima di noi e che non ha mostrato evidenze negative. Sottolineo anche che le linee guida nazionali non hanno un carattere precettivo ma orientativo per le Regioni. La nostra scelta è stata fatta sulla base delle indicazioni cliniche e scientifiche e non esclude il ricovero ordinario per questo trattamento, dando al tempo stesso maggiore libertà di scelta alla donna, sempre a partire dal suo consenso al trattamento, tenendo conto dello stato di salute, della sua storia clinica e di tutto il resto. Abbiamo quindi inteso valorizzare il rispetto della donna in momento difficile e la sua libertà di scelta, senza attenuare i livelli delle cure; si danno indicazioni sulle possibilità di percorsi alternativi scelti dal medico previa consenso della donna”.
Sulla stessa linea dell’assessore Barberini si è posto il consigliere regionale Attilio Solinas (Misto MdP, presidente della Commissione Sanità dell’Assemblea legislativa) che ha sottolineato come “Francia e Belgio permettono ai medici di famiglia, formati ed in rapporto con le strutture ospedaliere, di fornire l’aborto medico alle donne”. Nel contempo ha pure spiegato che “alcune Regioni italiane come Toscana e Lazio stanno sperimentando la pratica della IVG medica in Consultori e poliambulatori attrezzati. Ciò che si risparmierebbe dai ricoveri ospedalieri potrebbe essere quindi essere utilizzato sia per potenziare la preziosa rete dei consultori pubblici, che in Umbria è ormai ridotta ai minimi termini, sia per la promozione, come previsto dalla 194, di un accesso gratuito alla contraccezione, che è l’unica reale prevenzione all’aborto”.
La narrazione di una vicenda a carattere squisitamente istituzionale offre la possibilità di interrogarsi, come ha fatto nel recente passato la dr.ssa Marina Toschi, vicepresidente di AGITE (Associazione Ginecologi Territoriali), su “come mai c’è una così grande attenzione della politica italiana alla vita riproduttiva delle donne italiane, solo per insistere crudelmente a rendere impossibile in Italia l’aborto farmacologico, spingendo, di fatto, ad intervenire chirurgicamente, mentre si potrebbe proteggere il nostro utero da inutili interventi chirurgici”. La risposta potrebbe essere uguale a quella fornita dalla stessa ginecologa, quando sostiene che “L’ideologia che vuole tenere a bada la capacità riproduttiva delle donne, è riuscita a far passare i 3 giorni di ricovero per l’RU486, quasi come una “protezione” sanitaria contro la “solitudine” delle donne, intervenendo, di fatto, a rendere impraticabile, la difficile e sempre personale scelta di come interrompere la propria gravidanza. Riuscendo anche a privare noi medici italiani dell’uso corretto delle tecniche che nel resto del mondo danno minori effetti collaterali specie sulla fertilità futura.”.
Il Ministero della Salute colga, quindi, l’occasione per un confronto proficuo, sul tema dell’interruzione di gravidanza a carattere farmacologico, con gli esperti della materia, un confronto che abbia a tema non solo la rivisitazione delle Linee guida ministeriali, ma anche la modifica dell’attuale normativa italiana che rende impossibile l’uso della RU486, dopo il 49esimo giorno (settima settimana) di amenorrea, aumentando così la difficoltà a poter accedere a tale tecnica con tempi così stretti. Invece in molti Paesi l’uso è consentito fino alle nona settimana, in linea con quanto previsto dall'Agenzia Europea del Farmaco che avalla la possibilità di utilizzare la pillola RU486 per l'aborto farmacologico entro il 63° giorno di amenorrea.
Queste due richieste erano state oggetto di una specifica petizione lanciata nei mesi scorsi su Change dalla Rete Nazionale #moltopiùdi194, in cui si faceva presente che: ”L'aborto farmacologico è una tecnica sicura ed economica, eppure è utilizzata solo nel 15,7% dei casi, perché una serie di condizioni ingiustificate ne limita l'impiego.
Chiediamo che queste limitazioni vengano rimosse perché anche in Italia, come negli altri Paesi europei dove l'aborto è legale, le donne possano ricevere il trattamento più appropriato e conforme alla propria scelta.”. Privare le donne che intendano effettuare un’interruzione di gravidanza non cruenta, come quella chirurgica, dell’accesso alle tecniche più moderne, più rispettose della loro integrità fisica e psichica e meno rischiose, come quelle correlate al ricorso all’aborto farmacologico, significherebbe punirle ad una sofferenza ingiustificata. A meno che non si voglia fare pesare su di loro lo stigma di una scelta per così dire non legittima o, peggio ancora, “criminale”. Ma, si sa, questa è tutta un’altra storia.
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