NuovaEticaPubblica: l'ultimo numero è dedicato a Adriano Olivetti
Dedicato alla figura e al pensiero di Adriano Olivetti, il nr 12 di NuovaEticaPubblica con numerosi interventi. L'editoriale di Daniela Carlà e Guido Melis
Mercoledi, 13/02/2019 - Pubblichiamo l'editoriale del nr 12 di NuovaEticaPubblica, firmato da Daniela Carlà e Guido Melis, che riflette sull'attualità di una figura ancora di sorprendente attualità, quella di Adriano Olivetti. La lettura integrale del numero è possibile nel sito.
Adriano Olivetti, Ivrea 1901-Aigle 1960. È ancora “inattuale” Olivetti, come sembrava a molti commentatori già al momento della sua scomparsa? O invece non è, e proprio in ragione di quella sua rivendicata “inattualità” di allora, oggi fortemente “attuale”? La domanda è al centro di questo numero della nostra rivista. L’occasione è fornita dal riconoscimento nel 2018, da parte dell’UNESCO, del sito di Ivrea come città ideale della rivoluzione industriale del 900. Abbiamo chiesto il contributo ad alcuni tra i più vicini collaboratori di Adriano Olivetti, alla stessa Fondazione, a eminenti urbanisti, a dirigenti e studiosi della Pubblica Amministrazione, convinti della possibile attualità del modello Olivetti anche per la Pubblica Amministrazione italiana: dunque non una nostalgica rilettura delle memorie di Adriano, ma una sollecitazione per il presente.
Poche linee storiche, soprattutto per chi, più giovane, non sa. Olivetti fu - per usare l’espressione di uno dei suoi amici - “un profeta disarmato”. E figlio di Camillo, imprenditore e fondatore della fabbrica di famiglia e a sua volta straordinario innovatore della sua epoca, Adriano conosce la fabbrica, ed è per questo che vuole cambiarla “nel lontano agosto 1914, avevo allora 13 anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina….per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso nell’industria paterna”: almeno in questo non fu profetico e, fortunatamente, tornò in fabbrica per rinnovarla profondamente. Ma Adriano conosce anche il mondo, e già nel 1925 il padre lo spinge negli Stati Uniti, per studiare l’inglese e “vedere un po' di mondo”, e anche questa esperienza risultò decisiva. Adriano univa una non comune capacità organizzativa e leaderistica euna non improvvisata confidenza con la cultura industriale moderna con un’altrettanto eccezionale propensione per la ricerca, per l’innovazione, per la fantasia applicata alla produzione.
E qualcosa di più, ancora: il saper fare, il produrre (fossero macchine da scrivere, calcolatrici o addirittura il prototipo del computer contemporaneo, cui la Olivetti arrivò per prima) dovevano inserirsi in un contesto di modernizzazione economico-sociale controllata e guidata dall’uomo, in una chiave che garantisse uno sviluppo insieme equilibrato e razionale della società e del rapporto industria-ambiente. Adriano Olivetti è stato uno straordinario anticipatore della responsabilità sociale e ambientale di un’impresa che agisce responsabilmente nel territorio, coniugando attività imprenditoriale, valori etici, trasparenza. Tanto è trasparente la sua impresa che Adriano, forse metaforicamente, predilige il vetro, nella sua fabbrica si può guardare dentro dall’esterno. Né si può dimenticare la cura nel promuovere la cultura dei dipendenti, offrendo loro conversazioni musicali, letterarie, artistiche, ecc. ad alto livello, magari nella pausa pranzo; o la creazione a Ivrea di una biblioteca ricca e aggiornata aperta a tutti gli abitanti, i cicli cinematografici e le mostre d’arte. Era assolutamente inedito, in quegli anni, il welfare aziendale che, in aggiunta a servizi sanitari eccellenti, garantiva ai dipendenti soggiorni al mare e ai monti, nidi e scuole materne ispirati a principi pedagogici moderni, convalescenziari, ecc. Adriano fu particolarmente attento a misure per favorire il lavoro delle donne, anche agevolando il rientro dopo il parto. “Stare all’Olivetti” fu, per una generazione di tecnici, operai e dirigenti, un modo diverso di fare industria e insieme la partecipazione a una particolare filosofia del produrre.
Ma c’era di più. Basterebbe scorrere il catalogo delle Edizioni di Comunità per ravvisarvi i tratti di un disegno culturale il cui epicentro e la cui matrice prima potevano ben essere nell’ipotesi di un modo alternativo di fare industria, ma la cui espansione poi toccava tutte le discipline non solo umanistiche e finiva per risolversi in una proposta culturale globale di riforma dell’intero sistema.
La parola chiave era “comunità”, un lemma che Olivetti pose persino al centro di un progetto politico, partecipando sotto quell’insegna alle elezioni. Comunità significava fare come in piccolo si era fatto a Ivrea: la fabbrica nel verde pubblico, gli operai alloggiati non in periferie stranianti della città ostile ma nei piccoli condomini sparsi tra gli alberi, l’asilo per i bambini, l’assistenza medica a portata di mano, i trasporti garantiti, la cultura più avanzata e la scuola meglio organizzata a disposizione dei dipendenti. Utopia pura: un’isola della ragione nel cuore del più disordinato e estraniante momento storico dell’Italia del Novecento, il miracolo economico nel quale gli animal spirits del capitalismo furono lasciati liberi, nel bene e nel male, di esprimere tutta la loro violenta ambizione di modellare il mondo alla propria esclusiva misura. Olivetti no. A Ivrea si parlava di programmazione e di sviluppo indirizzato, quando ancora queste parole erano estranee al lessico della politica. Si guardava alla preservazione dell’ambiente in tempi nei quali la ciminiera imperava e rappresentava il simbolo invincibile del progresso. Si proponeva già la centralità dell’urbanistica, e l’intreccio tra la pianificazione economica e quella degli assetti urbani.
C’era poi un punto, che a noi sembra di attualità quasi sorprendente, ed era la contraddizione tra la globalizzazione, la spersonalizzazione del lavoro e della vita comune, la concentrazione produttiva e urbana implicite in questa nuova stagione del capitalismo e invece la nostalgia di vivere nel proprio “locale”, di lavorare gli oggetti con le proprie mani, e anche l’esigenza di solidarietà umana e sociale che, pur derivando da mondi contadini ormai anacronistici, trovava e trova tuttavia anche nelle società globalizzate del nostro tempo una sua imperiosa rivendicazione. Contraddizione acuta che oggi, nell’attuale colossale trasformazione derivante dalla crisi del modello fordista, sembra essere diventata una dei problemi irrisolti e apparentemente irresolubili delle società avanzate.
È abbastanza significativo, dunque, che torni oggi di grande attualità la visione di Olivetti. Oggi che la globalizzazione, dopo la grande crisi mondiale, mostra le sue contraddizioni interne, cui corrispondono convulsi e antistorici moti di ripulsa e di ritorno all’antico. Ma al tempo stesso oggi, che si giocano le sorti dell’uomo, nell’imminenza (o forse nel mezzo) di una imponderabile rivoluzione tecnologica che ne modifica lo stesso rapporto con le cose, con gli altri uomini e con la sua stessa identità.
L’informatica stessa, che fu la grande intuizione pionieristica di Adriano, modifica strutturalmente il lavoro, ne flessibilizza i tempi, ne disloca i luoghi un tempo inderogabilmente concentrati in una sola fabbrica, li distribuisce senza ordine apparente in una serie di postazioni anche molto distanti geograficamente l’una dall’altra. Le gerarchie che il lavoro industriale imponeva come una gabbia, poi trasferitesi all’intera società capitalista, sono messe dappertutto in discussione. La rete parifica i soggetti che vi accedono, determinando l’avvento di modelli orizzontali o circolari dove prima vigeva la rigida maglia delle catene verticali. Anche la gerarchia geografica tra centri e periferie non vale più come un tempo: se basta un collegamento internet per parlarsi, diventa indifferente risiedere in città o in campagna, al centro o in provincia, in uffici iperconnessi o in misere capanne nella giungla ma con un computer a disposizione (come pare stia avvenendo in India, ad esempio).
Nell’amministrazione pubblica, che è poi il nostro specifico come rivista, “saltano” le connessioni ferree della catena gerarchica; i processi procedimentalizzati alla stregua di catene di montaggio dove ogni cellula produttiva “lavorava” il suo pezzo si trasformano, perché nella rete tutti i soggetti possono ora accedere contemporaneamente alla produzione dell’atto amministrativo. Come aveva intuito un grande giurista profondo conoscitore della pubblica amministrazione, Massimo Severo Giannini (non a caso partecipe per un tratto di strada del disegno di Olivetti), si lavorerà in futuro per obiettivi, puntando sulla coralità dell’attività amministrativa, sulla sua contestualità. L’eclettismo interdisciplinare di Adriano Olivetti sarebbe oggi indispensabile per favorire il superamento del rigido formalismo giuridico che permea la pubblica amministrazione. Adriano favorì la coesistenza tra formazione tecnico-scientifica e quella umanistica, il lavoro in equipe, l’investimento nei talenti e nell’innovazione.
E poi c’è l’ambiente. Il suo consumo selvaggio, la sua distruzione sistematica. Il tema posto dalla recente, drammatica vicenda dell’Ilva di Taranto. E l’espansione dei centri urbani, dilatati senza più razionalità sino a trasformarsi in contenitori estranianti per un’umanità alienata e isolata in monadi sempre più incomunicanti (un paradosso, nell’epoca del trionfo della comunicazione). E la babele delle culture e dei linguaggi. Il rumore di fondo perpetuo di una società che ha perduto le virtù del silenzio, della riflessione, del pensiero lungo.
E, ancora, la concezione della democrazia, la critica anzitempo alla pervasività dei partiti politici, oggi debolissimi anche perché non si è rimediato in tempo cogliendo la critica costruttiva rivolta a un sistema politico “dove i deputati sono nominati da liste manipolate dalla direzione dei partiti”.
Tutto questo rende attuale, attualissimo Adriano Olivetti. Sono passati quasi 60 anni dalla sua scomparsa, eppure mai come oggi ci manca. Sentiamo il bisogno di riprendere il suo discorso “visionario”, consapevoli come siamo che di quelle “visioni” abbiamo più che mai bisogno, e con urgenza. Perché Adriano Olivetti era un visionario, ma non un utopista e dalle sue anticipazioni possiamo trarre indicazioni realistiche e praticabili anche nel presente.
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