Martedi, 06/10/2020 - Si è concluso quest’ultimo appuntamento elettorale con lo spoglio dei voti espressi nei vari ballottaggi per l’elezione delle compagini amministrative di alcune città italiane. Durante il primo turno, coincidente con l’elezione referendaria e regionale, ossia lo scorso 20 settembre, fui avvicinata da una scrutatrice che mi formulò una domanda, a cui non seppi immediatamente rispondere. La donna mi chiese indispettita il motivo per il quale sui registri elettorali accanto alle generalità delle votanti fosse presente il loro stato civile di coniugate o vedove, con tanto di cognome del proprio coniuge. Riteneva la circostanza non solo ingiusta, perché in quelli maschili non v’era analoga specificazione al proposito delle consorti, ma oltremodo violante la privacy delle elettrici.
Dovetti al momento confessare la mia ignoranza al riguardo di quanto mi veniva fatto presente, ma mi ripromisi appena possibile di informarmi al proposito. Andando così a prendere conoscenza della norma legittimante tale prassi, ossia la circolare del Ministero dell’Interno del 1 febbraio 1986, n. 2600/L, al capitolo VII, par. 47 punto 7, relativa ai dati da trascrivere sulle schede generali, lessi al capitolo VII, par. 47 punto 7, che va “per le donne coniugate o vedove, il cognome da nubile accompagnato dal cognome del marito, preceduto dalla indicazione «in» o «ctg.» ovvero «ved.», a seconda dei casi”. Di fronte a questo palese discriminazione, nonché altrettanta evidente violazione della privacy delle donne inserite negli elenchi elettorali, sarebbe conseguentemente opportuna la modifica di suddetta circolare, come anche dell’4, comma 1, lett. a), della legge n. 1058 del 1947, entrato in vigore prima della Carta costituzionale e mai abrogato, in base al quale nelle liste elettorali la donna sia identificata anche con il cognome del marito.
Non si comprende, difatti, come all’individuazione dell’elettore attraverso i dati anagrafici, si disponga per le sole elettrici dell’inserimento del cognome del coniuge, vivo o morto che sia. Ci troviamo di fronte a norme che condizionano fortemente l’identificazione della donna sposata, nel momento in cui essa è chiamata, in quanto cittadina ed elettrice, ad esercitare il diritto di voto, nonché di una palese inosservanza dell’art. 29 della Carta costituzionale che sancisce la parità tra i coniugi. L’inserimento del cognome del marito, accanto al nome dell’elettrice coniugata, differenzia i coniugi sulla base del sesso, laddove per l’esercizio del diritto fondamentale di voto, diritto politico a carattere personale, è del tutto insignificante l’essere o meno coniugata.
Come sostiene Roberta Lugarà, dottoressa di ricerca in Giustizia costituzionale e Diritti fondamentali nell’Università di Pisa e giurista, nonchè assistente presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, “sarebbe sufficiente eliminare il riferimento al cognome del coniuge, moglie o marito che sia, da liste, certificati e tessere, lasciando che elettori ed elettrici si presentino al seggio con il proprio nome civile”. Cos’è che, quindi, impedisca che ciò avvenga e come sia possibile che una norma gerarchicamente inferiore, quale è una circolare ministeriale, soverchi il primato costituzionale della parità tra i coniugi è a dir poco disarmante. O forse no, se andiamo a dare la colpa alla disarmonia delle fonti normative, che comunque è deprecabile per sé stessa.
Eppure già in occasione della elezioni europee dello scorso anno sollevò polemiche la circostanza che sulle schede elettorali delle donne residenti all’estero fosse presente il cognome del coniuge, in virtù dell’articolo 13 della legge del 30 aprile 1999, n. 120, in base al quale “per le donne coniugate il cognome può essere seguito da quello del marito”.
La Farnesina interpellata dalle dirette interessate aveva specificato che “in merito all’inserimento del cognome del marito accanto a quello dell’elettrice coniugata esso è stato disposto al solo fine di facilitare il più possibile il recapito dei certificati elettorali da parte dei postini stranieri nei Paesi Ue”. Senonchè anche ad altre donne residenti in Italia, al momento del rinnovo del proprio certificato elettorale, gliene è stato consegnato uno con la medesima doppia intestazione dei cognomi, a dimostrazione che la spiegazione fornita dal Ministero degli Esteri fosse alquanto forzata.
Appare indubbiamente strano che quella, che si configura come una possibilità statuita dalla legge n. 120/1999, diventi un obbligo, senza che sia richiesto alla diretta interessata se voglia o no essere denominata anche con il cognome del marito. Il paradosso è che il cognome “da sposata” appaia anche sulle schede delle donne separate, ma non divorziate, quando invece al riguardo dell’identificazione delle donne sposate o separate esiste un’inoppugnabile sentenza del Consiglio di Stato, risalente al 1997, che stabilisce come valga “esclusivamente il cognome da nubile”. Cosa spinga ad un indubbio passo indietro rispetto a principio, costituzionalmente sancito, della parità tra marito e moglie non si comprende, a meno che non si riconosca normativamente in maniera netta e chiara che in Italia valga la disparità di genere, ossia che la donna debba essere “targata” con il cognome del marito e non viceversa. Che nel nostro Paese, in realtà, la parità tra i sessi sia ancora lungi dall’essere effettiva lo dimostra l’insufficiente partecipazione politica ed economica delle donne italiane, secondo i recenti dati del World economic forum che ha quantificato come il gap da colmare nel nostro Paese sia ancora superiore al 40%.
Allora diventa non secondario che a tale divario non si aggiunga, come peso ideale altrettanto gravoso, la circostanza che le donne siano ancora identificate nei documenti elettorali con il cognome maritale, come avviene per disposizione del Ministero dell’Interno. Un indubbio passo indietro di cui le dirette interessate, probabilmente, non si sono avvedute, ragione per la quale sarebbe ad esempio auspicabile che, al momento del rinnovo della tessera elettorale, volontariamente si avvalgano del diritto di non vedere menzionato il cognome del coniuge. Nel contempo il Viminale dovrebbe rivedere la circolare n. 2600/L/1986, prevedente per i registri elettorali che “per le donne coniugate o vedove, il cognome da nubile (sia) accompagnato dal cognome del marito, preceduto dalla indicazione «in» o «ctg.» ovvero «ved.», a seconda dei casi”. Non sentiamo certamente bisogno per la nostra identificazione di alcuna “targa di proprietà”, perché nel nostro ordinamento normativo vale al riguardo, come pietra basilare, quanto recita l’art. 29 della Costituzione, ossia che “Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”.
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