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Morselli Gianna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2008
“Quante botte! Pugni, schiaffi, calci, avevo il corpo dolorante, mi mancava il respiro pensavo che sarei morta… Poi il silenzio, la porta sbattuta e lui non c’era più ma sarebbe ritornato e l’inferno sarebbe ricominciato. Le urla, le minacce, le accuse. Non ne potevo più, per me e la mia bambina non c’era futuro in quella casa finché c’era lui, mio marito.
Mi sono fatta forza, ho chiamato mia sorella, lei mi ha accompagnato al Pronto Soccorso e ho denunciato mio marito per le ferite e violenza psicologica. Durante il ricovero in ospedale, Adele, la mia bambina, l’ho affidata alle cure di mia sorella e nel frattempo ho preso contatto con un’avvocata per iniziare le procedure di separazione. L’avvocata mi ha spiegato che sarei comunque dovuta rientrare in casa, ma io avevo paura…
Mi sono decisa, e appena uscita dall’ospedale sono andata all’Ufficio di Polizia, ho chiesto di parlare con la poliziotta che aveva raccolto la mia denuncia, le ho spiegato la situazione e le ho chiesto aiuto. Si è messa subito all’opera e ha trovato il modo, con un ordine giudiziario e applicando la legge, di fare allontanare mio marito dalla nostra casa, con l’ordine di non avvicinarsi a me. La bambina l’avrebbe incontrata nella sede dei Servizi sociali una volta la settimana.
Come alloggio temporaneo è stato accolto in una comunità dove ha dovuto iniziare un percorso rieducativo con il sostegno di uno psicologo. Naturalmente ha continuato ad insegnare nell’Istituto Superiore dove lavora da otto anni. Un tutor del Tribunale gestisce il suo stipendio dividendolo fra il mantenimento per me e mia figlia e la quota per la comunità che lo ospita. Uscita dall’ospedale ho iniziato a frequentare un gruppo di auto-aiuto. Dopo circa 4 mesi mi sono sentita pronta per entrare in un programma promosso dai Servizi Sociali che mi ha permesso di rientrare nel mondo del lavoro, sono biologa e di comune accordo con mio marito avevamo deciso che mi sarei occupata a tempo pieno della bambina. Adele oggi ha sei anni, frequenta la prima elementare e alle quattro del pomeriggio, finito il mio turno di lavoro, la vado a prendere e torniamo nella nostra casa. A volte andiamo al cinema, con la bella stagione andiamo sul lungo lago. Adele ha tante amichette con cui passiamo i fine settimana organizzando pic-nic e biciclettate nei parchi, insomma la nostra vita è finalmente serena. E’ stata dura ricominciare, senza mio marito, ero molto dipendente da lui, mi organizzava le giornate nei minimi particolari tanto che non mi sentivo più in grado di gestire la mia vita, il gruppo di auto-aiuto è stato fondamentale per reagire e ricominciare”.
Ingrid nel raccontarmi il suo inferno si commuove nel ricordo di tutte le persone che le sono state vicino, a partire dalla dolce poliziotta, alle donne del gruppo, alle assistenti sociali, tant’è che a sua volta si è resa disponibile per aiutare altre donne vittime di violenza.
Peccato che questo racconto a lieto fine non sia una storia italiana e, coi tempi che corrono, dovremo aspettare ancora molto tempo prima di poter conoscere qualcosa di simile anche nel nostro Paese.
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