Al festival giallo di Mantova si proporrà il superamento della parola femminicidio e la sua sostituzione con amoricidio. Le ragioni di un NO netto a questa idea
Martedi, 08/10/2019 - Girovagando per la rete può capitare di imbattersi in notizie a dir poco sorprendenti, tanto per usare un eufemismo. Come, ad esempio, quando si incappa nell’evento FESTIVAL GIALLO MANTOVA, così definito “una due giorni dedicata alla #narrativa, alla #saggistica e al #giornalismo per approfondire tematiche legate al mondo del #giallo, del #noir e delle #inchieste di #cronaca #nera”. Di tale festival, la cui prima edizione si terrà nella città mantovana dal 30 novembre al 1 dicembre 2019, balza immediatamente agli occhi il leitmotiv, ossia “Amoricidio. Verso il superamento del termine femminicidio”. Lì per lì si cerca di comprendere il significato del primo termine, che peraltro come novità lessicale si dubita possa essere presente in qualche dizionario della lingua italiana. Cosicchè si tenta di dedurne il senso, ricorrendo alla sua eventuale etimologia, ossia uccisione di un amore, per provare a correlare questa accezione con la frase successiva “verso il superamento del termine femminicidio”.
E’ a questo punto che la mente si rifiuta di proseguire, solo a considerare le difficoltà ancora attuali, che si incontrano a fare divenire generalmente accettato dall’opinione pubblica l’idea che femminicidio significhi “uccisione di una donna perché donna”. Si sono impiegati anni perché da parte dei media se ne accettasse il concetto, nel mentre l’Accademia della Crusca, massima istituzione italiana di studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana, ne convalidava il senso, ed ecco che in un pubblico evento, per di più a carattere letterario, salta il banco? E poi con quale proposta alternativa, di sostituire femminicidio con amoricidio? Ossia la morte di una donna con quella di un sentimento?
L’operazione sottesa a tale scelta linguistica non è irrilevante perchè le ulteriori conseguenze che ne discendono risulterebbero il frutto di una ben precisa opzione strategica, quale quella di giustificare nell’immaginario collettivo che una donna possa essere ammazzata da un uomo per amore. Un macigno ideologico che, sappiamo, è ben difficile da rimuovere, soprattutto perché continuamente divulgato da media poco attenti alla narrazione corretta di un femminicidio. Di “giganti buoni” solo per riprendere un articolo che così descriveva l’assassino di Elisa Pomarelli, continueremo a trovarne sulla strada di chi scrive di tali crimini. Occorre una netta inversione di tendenza, perchè usare il termine femminicidio e non sostanziarlo con una idonea rappresentazione della vicenda significa non onorare il significato stesso di tale parola.
Le donne vengono uccise quando oppongono un No a quello che diventerà il loro carnefice, quando rivendicano la libertà di scegliere in piena autonomia cosa fare della propria vita e quando conseguentemente si determinano a porre fine ad una relazione sentimentale con un uomo che non le rispetta come persona, usando ogni forma di violenza nei confronti loro e dei propri cari. Quella violenza a cui alcuni uomini ricorrono per riaffermare il proprio dominio su di una donna che vorrebbe lasciarli, è il vero focus su cui puntare i riflettori di un pensiero realmente rispettoso dei fatti che conducono ad un femminicidio. E’ errato, completamente errato, soffermarsi sull’amore che induce l’assassino a tale crimine, sia dal punto di vista della comprensione del gesto che della correlata rappresentazione.
Occorre stare ai fatti e non alla loro resa in forma romanzata, come si usa fare molto frequentemente. “L’ha uccisa per troppo amore”, “Accecato dalla gelosia”, "Preda di un raptus” non sono altro che i passi preliminari per accendere le luci sul carnefice, tessendo la trama di un ordito a lui particolarmente favorevole. Ossia, quello di fare dimenticare la vita di abusi vissuti prima della morte dalla sua vittima, in nome di un cosiddetto amore, e focalizzare invece lo sguardo sull’uomo per consentirgli di tentare di essere assolto per il crimine commesso dall’opinione pubblica. Più si romanza l’antefatto di un femminicidio, con espressioni quali “l’amava troppo”, più si sbaglia nel racconto, perchè l’unica storia da narrare è quella della donna uccisa.
Illuminante al riguardo dell’uso sbagliato e volutamente scorretto delle parole descrittive di un femminicidio, lo troviamo nel libro di Michela Murgia e Loredana Lipperini “L’ho uccisa perché l’amavo. FALSO”. Secondo le autrici ricorrere a tali espressioni linguistiche porta inevitabilmente il lettore a porre in essere un’operazione giustificativa dell’atto criminale compiuto dal femminicida e conseguentemente del suo autore, considerato come una persona impedita ad opporsi a cotanta tempesta sentimentale. Cosicchè ne consegue che la morte di quella donna non sia “frutto di una cultura del possesso e della sopraffazione, ma di casuali gesti singoli compiuti da soggetti labili, vulnerabili irresponsabili”
Per sventare il pericolo di una descrizione scorretta di un femminicidio occorre usare le parole giuste. Al riguardo ci aiuta l’Accademia della Crusca, quando scrive che “non si tratta di una parola in più” per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di “un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi”. Rosario Coluccia, professore emerito di Linguistica italiana ed accademico della Crusca, ad un collega che gli domandava perché creare una parola nuova, forse anche inutile quale femminicidio, visto che “l’italiano ha già la parola omicidio, che indica l’assassinio dell’uomo e della donna”, così rispose. “Se una società genera forme mostruose di sopraffazione e di violenza, bisogna inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione. E quindi è giusto usare «femminicidio», per denunziare la brutalità dell’atto e per indicare che si è contro la violenza e la sopraffazione. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola «femminicidio»; il generico «omicidio» risulterebbe troppo blando.” Glielo facciamo sapere, allora, agli organizzatori del FESTIVAL GIALLO MANTOVA che la parola Amoricidio non può sostituirsi in alcun modo a Femminicidio? Semmai potremmo consigliare loro di invitare come relatore al convegno, che si terrà il prossimo 30 novembre e proprio dal titolo Amoricidio, un esperto come il prof. Coluccia, che spiegherebbe come la parola femminicidio indichi “l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca.”.
Una due giorni dedicata anche alla narrativa presupporrebbe che si parta anche dalle parole giuste per raccontare la realtà e se ce ne è una per descrivere il vero significato dell’assassinio di una donna che voleva rompere il suo legame sentimentale con un uomo violento, si usi il termine femminicidio, l’unico capace di garantire la verità di quell’assassinio.
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