- Non dimentichiamo che anche la religione cristiana è stata egemone per secoli, ha dettato regole del vivere e influenzato il pensiero
Stefania Friggeri Venerdi, 27/02/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2015
Onde evitare che il vento dell’islamofobia gonfi le vele delle forze reazionarie che additano nell’islam il nemico, declamando un cristianesimo identitario che proclama le radici cristiane d’Europa, è opportuno non dimenticare che anche alle nostre latitudini la religione cristiana ha goduto per molti secoli della totale egemonia culturale influenzando la modalità di sentire e di pensare, dettando i costumi e le regole del vivere civile. All’interno del mondo cristiano non sono mai mancati acerbi contrasti tra il potere spirituale e il potere temporale, ma il famoso detto “date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio” ha offerto solidi argomenti a favore della separazione dei poteri e il cristianesimo, dopo una lotta plurisecolare e sanguinosa fra la Chiesa e i regnanti, ha dovuto venire a patti col principio della laicità dello Stato. Anche se ancora oggi nelle società secolarizzate, compresa la Francia, l’invadenza della chiesa nella vita pubblica rimane militante, come conferma l’intervista rilasciata dopo il 7 gennaio da Lux, giornalista superstite di Charlie Hebdo: “La Francia, nonostante tutto, resta culturalmente un vecchio paese cattolico. E l’abbiamo visto bene in questo periodo di agitazione politica e continue manifestazioni intorno alla legge sul matrimonio per tutti. Una Francia profonda e retrograda che va ben al di là dei cattolici integralisti (quelli non li avevamo certo dimenticati perché ci hanno fatto circa dodici processi in vent’anni).” Dunque le vignette, a volte anche brutte e volgari secondo alcuni, scaturivano dal rifiuto di venire a patti con “la vecchia forza politica della Chiesa, quel potere oscuro che non è mai scomparso in Francia e che interviene pesantemente nelle questioni sociali … In uno stato laico la gente non si identifica rispetto alla religione o ad un gruppo etnico, ma rispetto alla cittadinanza … La Francia è forse l’ultimo baluardo dell’universalismo dei valori laici contro il comunitarismo ormai vincente.” A parere di Luz dunque l’agente patogeno dell’estremismo fanatico sarebbe il comunitarismo che riduce l’identità poliedrica di ogni individuo nell’identità unica e totalizzante della confessione religiosa e/o della comunità dei fedeli.
Nel suo “Identità e violenza”, uscito in Italia negli anni in cui si comincia a parlare di “scontro di civiltà”), Amartya Sen riflette a lungo su quanto sia problematica la condizione esistenziale di chi vive la competizione fra due diverse identità (ad es. “sono cittadino francese o sono in primo luogo un musulmano?”) soprattutto se, nel contesto sociale in cui vive, la persona viene vista non nelle sue molteplici sfaccettature identitarie ma come membro di una singola identità, religiosa oppure etnica (“L’ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano ebreo, è l’antisemita che fa l’ebreo”, J.P. Sartre). Parole profetiche quelle di A. Sen se riferite ai ripetuti casi di violenza da parte di chi aderisce al fondamentalismo religioso: attraverso internet, o i compagni spesso incontrati in carcere, il giovane musulmano riesce a dare un senso al vuoto della sua vita recuperando le radici ataviche e facendosi membro della “Umma”, la comunità dei fedeli; e dopo aver cancellato le sue molteplici affiliazioni, identificando se stesso solo ed esclusivamente come un autentico musulmano, il futuro terrorista, ormai rinato (born again), entra nella comunità dei combattenti, ne sposa l’identità settaria e conclude l’affiliazione con un viaggio iniziatico. E oggi è forte il richiamo esercitato dall’ Isis a causa dei successi militari e del potente messaggio politico: il ritorno del Califfato, l’età dell’oro dell’islam, che restituirà ai musulmani “la dignità, la potenza, i diritti e l’autorità del comando” (Al Baghdadi).
Pur tenendo presente tutte le grandi differenze del contesto storico e culturale, Loretta Napoleoni nel suo libro intitolato all’Isis argomenta così: “Negli anni quaranta ebrei di varie parti del mondo si unirono in una lotta contro gli inglesi per riconquistare la loro antica terra, una patria ancestrale donata da Dio, dove potevano nuovamente trovare la liberazione. Come l’antica Israele è sempre stata per gli ebrei la Terra Promessa, così il Califfato rappresenta per i musulmani lo stato ideale, la nazione perfetta in cui trovare la salvezza dopo secoli di umiliazione, razzismo e sconfitte per mano degli infedeli, ossia delle potenze straniere e dei loro associati musulmani.” L ’Isis, infatti, rappresenta un genere di stabilità non insolito nelle regioni che hanno sofferto conflitti prolungati dove la popolazione vive da anni nella miseria e nel terrore: vittima della violenza scatenata dalle guerre e dagli scontri tribali fra gruppi religiosi o fazioni politiche, vittima della corruzione delle èlites al potere colluse con gli interessi stranieri, vittima del cinismo dei grandi della terra che stanno a guardare, anzi no: foraggiano con soldi ed armi il gruppo “amico” e fanno la guerra per procura. E come ieri in Afganistan i telebani, dopo la dissoluzione dello Stato, hanno riempito il vuoto politico cacciando i signori della guerra, oggi l’Isis ha riportato l’ordine nelle regioni del Medio Oriente, dove l’autorità dello Stato si era dissolta nell’anarchia della guerra permanente.
Lo Stato islamico non prevede per le donne alcuna attività extradomestica, ma ha sviluppato programmi assistenziali e sanitari, coma la campagna antipolio, in un miscuglio di premoderno e moderno incomprensibile per l’Occidente. Dove nel settecento, grazie all’influenza benefica sul corpo sociale esercitata dai moralisti inglesi e dagli illuministi francesi, la religione ha cessato di essere una bandiera di combattimento; nonostante i privilegi di cui hanno continuato a godere le chiese cristiane, in Europa vengono scritti i primi Statuti attraverso i quali al cittadino viene riconosciuta la libertà religiosa, e dunque la libertà di pensiero e di espressione. Anche nel mondo musulmano, multiforme e diversificato come hanno dimostrato le cosiddette “primavere arabe”, sono presenti oggi forze che chiedono emancipazione dal potere religioso (ovvero dal patriarcato, dal sessismo, dalla omofobia, dal fondamentalismo) ma non v’è dubbio che questo processo sarà lungo, troppo lungo, soprattutto se consideriamo il potere esercitato dagli stati teocratici e dai loro petroldollari. E intanto in Europa si leva sempre più minacciosa la voce di chi chiama alla “guerra di civiltà”, individuando la soluzione di una crisi ormai globale attraverso misure inefficaci ma di forte impatto mediatico. Un quadro fosco perché se ci sforziamo di sfuggire alla scioccante emotività del presente e guardiamo agli avvenimenti in una prospettiva di lungo respiro, ne emerge che non saranno né la politica securitaria né l’attività dell’intelligence a liberarci dal fanatismo dei criminali che uccidono in nome di Allah, ma solo l’impegno delle forze che condizionano la politica internazionale a ripulire il verminaio che appesta il Medio Oriente. A partire dalla questione israelo-palestinese.
Foto: Acquerello di Giulia Tognetti, gentilmente concesso
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