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Non prendiamo ad esempio i maschi

Non prendiamo ad esempio i maschi

La pratica di pensarsi tutt’uno con l’aiuto tecnologico rischia di farci credere all’onnipotenza e ci debilita. L’alterità delle donne agli uomini, non più vista con gli occhi del patriarcato ma con quelli delle donne stesse

Giovedi, 05/01/2023 - Iole Natoli racconta su Noi Donne il progetto realizzato da due donne di fare un figlio insieme con l’utilizzo dell’uovo di una, fecondato da un uomo estraneo e impiantato nell’utero dell’altra. Lamenta una discriminazione rispetto alla doppia genitorialità che ottengono le coppie di maschi omosessuali da parte delle istituzioni italiane. Non ottengono la doppia maternità, se ho ben compreso ( Iole Natoli, 7 dicembre 22 Quella madre che non è madre è come un padre/ Quando il diritto nega la realtà. I figli della coppia lesbica di Anghiari unita civilmente e la sentenza del Tribunale di AREZZO / Discriminazione verso le persone LGBT o in primo luogo verso le DONNE?)
Ho riserve sulla utilità di riflettere sulla discriminazione delle donne prendendo a modello le scelte dei maschi omosessuali. Si rischia di avvallare pratiche violente verso i bambini, come progettarne intenzionalmente la perdita della madre, e di promuovere soluzioni inutili da parte delle donne, perché la sostanza dell’amore di coppia e della responsabilità genitoriale non passa per forza attraverso la corporeità.
Ancora oggi si sottraggono bambini a chi si dimostra poco capace di occuparsene, ed è crudele, sarebbe meglio aiutare i genitori nel compito genitoriale. Nel caso di chi volontariamente procura una violenza al figlio, come la perdita di un genitore e specie della madre che lo culla per mesi, si potrebbe almeno paventare la perdita della genitorialità, dovendo qui parlare di giurisprudenza. Non trovo legittimo l’esercizio di una violenza solo perché la tecnica e il denaro la rendono possibile. E sento il peso di questa affermazione ma non vorrei sentirlo. Proibire è divenuto l’unico gesto che desta scandalo, mentre qualsiasi miseria o guerra o discriminazione è sopportabile se avviene di fatto; se avviene senza la nostra personale volontà. Basta essere distratti o disinteressati dal ragionare e il potere ci conduce tutti ad approfittarci di tecnologie che hanno ricadute sulle persone di cui non ci si occupa. Le hanno nella vita collettiva e nella cultura di ciascuno: come il prendere l’abitudine di pensarsi più potenti che limitati. E’ questo il vivere sopra i propri limiti che sempre più appare come il percorso umano di cui ci dovremmo preoccupare.
Il percorso di assuefarci alle realtà che giudichiamo nocive si accompagna alla nostra impotenza e forse anche alla brevità della nostra vita. Al disinteresse per quella di chi verrà, sentendola una loro responsabilità. Ma c’è un patimento in me nel dovermi continuamente adattare a nuove competenze obbligate, e nell’agire più velocemente le cose che un tempo era sufficiente fare in un tempo più lungo, come non finissi mai di dover lavorare e pensare e affrontare fatti nuovi che tendono a disconfermarmi. Leggo che non succede solo a me e sento l’indicazione prevalente del non farci sopra riflessioni, ma così perdiamo sicurezza in noi stessi. Il lasciar correre invece di affrontare le questioni diviene un’ educazione diversa e contraria a quella che nella storia e nella vita di ciascuna e ciascuno ha dato invece risultati importanti. E’ come se oggi ci si dovesse sbronzare senza fine.
Il disinteresse civico che ci fa delegare a ciascuno di fare quello che vuole è lo stesso che ci fa accettare ogni scelta purchè sia sua, di altri, non nostra. Poi, dal momento che altri lo fanno lo dovremmo fare tutti: proprio questo ci viene detto ormai sempre più in grande: il mondo ci impone di fare ciò che non vorremmo e l’adeguarsi è divenuto un dovere.
Abbiamo delle responsabilità noi donne, per avere aperto una strada che respinge la paternità ma sembra molto più accettabile per via della tradizione che ci ha viste sostenere da sole la procreazione, nel disprezzo maschile della responsabilità generativa. Quasi a farne di necessità un punto di forza e di libertà.
E’ però facile comprendere come conoscere le proprie origini genetiche da parte dei figli, sia fonte di completamento della storia personale e li renda più sicuri; così come il soddisfacimento di ricevere l’attaccamento affettivo proprio da coloro che ti hanno dato il patrimonio genetico incoraggi la loro capacità di relazione affettiva. Inoltre il miglioramento delle relazioni parentali è stato un investimento sociale progressivo; anche se nulla toglie alla capacità di divenire figli e genitori ad altri soggetti che si ingaggino e siano ingaggiati nella relazione da parte di infanti, di giovani e di adulti. Anche questa è la storia dell’umanità: i figli capitavano e metterli nella possibilità di sopravvivere li vedeva spesso crescere con persone occasionali. Ma perché volere dimenticare le cose acquisite ormai rispetto alla responsabilità sociale verso i bambini? E rispetto a quella personale che non vede nel figlio una proprietà, né pensa di esercitare un ruolo di poco conto nella loro formazione psichica?
Anche Il bambino che sia stato progettato senza padre perde una opportunità e una parte della sua storia, mi auguro non sia cosa grave per lui o lei, ma vedo grave la scelta di privarlo volontariamente di una possibile opportunità. Se così è andata la storia generativa di molti, non è per questo il caso di insisterla.
Mentre l’ampliarsi delle relazioni affettive della coppia con figli e della relazione genitore e figlio rispetto a parenti, amici, incontri di affinità, è certamente arricchente ogni partecipante. Le responsabilità condivise diventano un esercizio educativo e un arricchimento affettivo socialmente positivo.
La manipolazione embrionale di cui Jole Natoli scrive, l’affetto che si vuole indurre nella gestante e che secondo le intenzioni dovrebbe confortare la coppia, parla di incertezze nell’osare la gravidanza da sola, di incertezza nel veder riconosciuto l’attaccamento per il figlio di un’altra, di incertezza anche negli esiti dell’unione.
E’ vero, la giurisprudenza potrebbe favorire una maggiore distribuzione di responsabilità tra persone consenzienti, non lo fa ad esempio nelle famiglie allargate che rimangono tali solo in virtù del consenso quotidiano sempre revocabile. E soprattutto lega la sorte di ogni nato strettamente a genitori e nonni senza una partecipazione sufficiente ad autonomizzare le persone da parte della comunità e delle istituzioni.
Adattarsi nella vita alle proprie perdite è fatto possibile, umano e come ogni accadimento, è anche fecondo di altre potenzialità che germinano. O valutiamo il nostro essere potenti nelle relazioni con i contesti o celebriamo l’impotenza che soltanto nella relazione di aiuto tecnico sostitutivo trova conforto. Mi pare un vittimismo esagerato, una dipendenza valorizzata, un cattivo esercizio educativo.
L’alienazione dalla corporeità, dalla radice che ci da vita, mi sembra la cosa più grave che rischia di capitare all’umanità nella costrizione all’esercizio della dipendenza nei confronti del potere. Non solo dobbiamo sopportare una guerra che non vogliamo, nella quale altri ci schierano tra i belligeranti, ma questo è sempre successo; di nuovo succede che l’insinuarsi della tecnologia nei nostri esercizi attivi ci priva sempre più delle nostre capacità di autonomia. Ci dicono di non muoverci, ci relazioniamo sempre meno in presenza, non agiamo ed un meccanismo lo fa per noi dalla nostra sedia, o nella nostra passeggiata: che può perdere però sempre più scopi. Le necessità creano incontri e la presenza dell’altro è al fine l’unica tranquillizzazione. Ci propongono di restare isolati e fermi per muovere le informazioni o altri al nostro posto, rendendo il contesto alfine zero. Ormai interviene l’obbligo istituzionale, questa è la schiavitù che risorge. Senza utilizzare gli strumenti esogeni perdiamo cittadinanza. Dobbiamo perdere attività, autonomia e relazioni perché altri trovino nella nostra schiavitù motivo di guadagno e di risparmio.
Comprendo come la tecnologia che rende più facili le azioni di informazione e ricerca, molto più facili le comunicazioni commerciali, trovi porte aperte in ciascuno e ciascuna, soprattutto conquista la gratuità economica. Più difficile è pensare quali siano le conseguenze, anzi noioso e deludente. Il fatto è però che la tecnologia diviene una natura con la quale si cresce e comunque ci si sviluppa nel pensare se stesse/i e la propria vita, le proprie attività e identità, distaccandoci dal corpo e dalle personali limitate capacità. Antonella Nappi
Inscriverci nei nostri limiti ci rende umani, consapevoli di limiti che ci rassicurano. Evaderli ci lascia soli, senza storia, senza esempi, molto più dipendenti dagli altri di quanto non lo sono state le nostre relazioni nel passato. Le relazioni automatiche ci rispondono e ci comandano. Non siamo noi ad inventare quello che ci serve, assumiamo dal potere economico e politico qualche cosa che ad altri serve e ci facciamo modellare, proprio nel mentre abbiamo desiderato invece di avere più potere personale.
Le donne io penso debbano impegnarsi nello spegnere Prometeo e non abbracciare l’intenzione d’essere onnipotenti, libere dalla natura, dalla costruzione biologica. Il potere si autodistrugge come i giovanissimi amici di Greta ci dicono. Non facilitiamo il potere tecnologico nell’invadere le nostre capacità. Diveniamo responsabili dei nostri limiti, sono le nostre risorse potenziali. Le relazioni con noi stessi e gli altri sono piene di potenza proprio nell’esercizio di fondarsi sui propri limiti
Fare i conti con la natura - che il patriarcato ha interpretato come una risorsa inesauribile a sua disposizione, invece di accettare il confronto con forze che gli si opponevano e trovare accordi con queste e la loro capacità di ricrearsi in continui nuovi equilibri - è la grande svolta culturale che le donne aiutano a fare. Le donne a cui si è chiusa la bocca per secoli, portano la capacità corporea e relazionale utile ad accogliere i limiti che gli uomini non si sono dati. Il confronto con le donne fa ritrovare alla società una misura.
Oggi specialmente i giovani che sono cresciuti con capacità ricevute dalla tecnologia si considerano legati a questa, un tutt’uno naturale che permette loro di pensarsi quasi onnipotenti, di pensare cose che possono anche realizzare ma senza avere esperienza di che cosa comportino come ricadute su se o altri. L’esperienza dei vecchi era una guida meno improvvida.
Antonella Nappi
Commenti e riflessioni sul tema di Alfonso Navarra e di Giovanna Cifoletti

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