Senegal - L’Africa dei N.I.P. (Non Important Person) e non quella dei dittatori alleati coi colonizzatori è un continente in trasformazione e graduale liberazione. Un focus attraverso i libri di Aminata Traoré e Rita El Khayat
Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2009
All’indomani del discorso inaugurale del presidente degli Stati Uniti d’America, che si pone con “umiltà” di fronte alla “nuova era di responsabilità”, ad un mondo in crisi e bisognoso di speranza più che di paura, di alleanze più che di missili e carri armati, viene voglia di aver fiducia che il mondo davvero stia cambiando. Di fronte a un presidente americano che nomina le proprie origini africane, “il piccolo villaggio dove è nato mio padre”, e non dimentica di rivolgersi anche agli abitanti di questo continente espropriato, brutalizzato e schiavizzato, viene voglia di lasciarsi alle spalle il discorso tenuto dal presidente francese Nicolas Sarkozy nel luglio 2007 a Dakar, capitale del Senegal, quando, molto lontano dall’umiltà e responsabilità evocate da Obama, dichiarava che il problema degli africani è dovuto al loro “non essere entrati abbastanza nella storia”.
Il rapporto tra l’Africa e la sua storia, che Sarkozy non riesce a vedere, viene ben chiarito da due recenti libri, entrambi pubblicati dall’editore Avagliano e scritti da donne africane. Il primo di Aminata Traoré, ex ministra della cultura in Mali ed esponente di spicco del movimento altromondista, si intitola “L’Africa umiliata”. Il secondo è una “lettera aperta all’Occidente” dall’antropologa, psichiatra e scrittrice Rita El Khayat, recentemente candidata al premio Nobel per la pace. Mi sono ritrovata a leggerli mentre viaggiavo per il Senegal, che ho potuto visitare, grazie a loro, con meno pregiudizi “occidentali” e uno sguardo più lucido.
A Dakar la cosa più visibile non è la povertà, semmai le molte strade, ponti e case in costruzione. Soprattutto si nota la presenza di molte/i bambine e bambini e una popolazione davvero giovane. Osservando le persone più che la miseria è la loro dignità a colpire. Le donne sono tutte ben vestite e pettinate, ovunque, anche al mercato, e camminano dritte e fiere, sempre: anche portando un bambino nelle spalle, avvolto in un fazzoletto ben legato al petto e perfettamente abbinato ai colori del vestito. Tutte le donne africane che ho avuto modo di conoscere e intervistare, tra cui la stessa Rita El Khayat, mi hanno trasmesso la grande forza della loro dignità ed anche una certa orgogliosa libertà di pensiero, che contrasta sia con l’immagine di vittime e oppresse diffusa da noi, sia con la storia di secolare dominazione delle popolazioni africane. Viene da pensare, anche alla luce dei recenti eventi americani, che è alle porte una nuova era in cui i rapporti attuali tra dominatori e dominati muteranno in una direzione imprevedibile, a cui forse non siamo pronti.
L’Africa è il continente da cui per quasi cinque secoli milioni di esseri umani sono stati “tratti” a forza da un continente all’altro per essere schiavizzati ed è il continente da cui, oggi, partono la maggioranza di “migranti” che le nuove leggi europee contro l’immigrazione tendono a impedire di partire, a selezionare, ad espellere. Anche gli schiavi venivano selezionati, e, tra chi partiva, molti morivano prima di arrivare, come oggi succede nel canale di Sicilia o nelle carceri libiche o in insalubri container o, già arrivati, perseguitati dal razzismo.
“Non dovrebbe essere possibile – scrive Aminata Traoré – al termine di una storia così lunga di violenze, certo, ma anche di incontri veri e di mescolanze, essere maliani senegalesi o camerunensi e passeggiare per le strade di Parigi, Londra, Bruxelles, senza dover giustificare la propria presenza e la propria differenza? L’Occidente si rifiuta di ammettere che è andato alla conquista del mondo e degli altri, e che nessuno esce indenne dall’esperienza dell’incontro, anche se si è nella posizione del dominante. Il colonizzatore ha voluto un’Africa francese ed eccolo con una Francia africana come componente di un’identità plurale”.
Gli schiavi africani non sono stati resi tali solo dai colonizzatori portoghesi, inglesi, francesi e americani: ancora prima di loro gli arabi traevano grandi profitti dal mercato degli schiavi che provenivano sia dall’Africa nera che dall’Europa, come informa Rita El Khayat, aggiungendo: “le ospiti degli harem non erano che schiave: le nere, considerate come riscalda ossa per i vecchi, le circasse, molto ricercate per la loro bellezza, e per essere bianche e bionde, le caucasiche, berbere, slave, turche e bianche di tutta Europa, a seconda delle tratte... Una delle grandi particolarità della schiavitù arabo-islamica è la mutilazione sessuale quasi sistematica degli schiavi maschi, gli eunuchi, e l’abitudine di usare le schiave femmine come oggetto sessuale. Conseguenza di queste pratiche fu che le popolazioni deportate si estinsero”. Invece i discendenti dei deportati nel continente americano sono sopravvissuti ai molti cambiamenti storici e dopo un “lungo e accidentato cammino” si sentono oggi ben rappresentati da una di loro: Michelle Obama, la first lady della nazione più potente del mondo. Un’altra conseguenza della cultura della schiavitù è la giustificazione della repressione delle donne, non legata a motivi religiosi né culturali, ma strumentali. In questa luce anche il tema della mutilazione genitale e della repressione misogina si svincola dal suo rapporto causale con la religione islamica e assume una dimensione storica e politica. Non a caso in paesi a maggioranza islamica ma laici e democratici, come il Senegal e il Marocco, vige la parità di genere e la mutilazione genitale è vietata per legge.
La storia dell’Africa, che Sarkosky non riesce a vedere, è la storia della graduale e difficile liberazione dalle varie forme di schiavitù di popoli diversi tra loro, che oggi fanno fatica a perseguire l’idea di “sviluppo” imposta dalla globalizzazione senza ritrovarsi, ancora una volta, a perdere qualcosa che abbia a che fare con l’autonomia e ricchezza propri di questo continente. Lo sviluppo non risolve il disfacimento dovuto a secoli di colonialismo, che sostituendo le originarie colture di sussistenza in coltivazioni industriali ha impoverito il terreno e, imponendo la propria lingua e cultura, ha trasformato il rapporto tra la persona africana e la sua terra, il modo di regolarsi nel tempo, di interpretare i segni della natura. Ne ha modificato, forse impoverito, non annullato, la Storia, che ha bisogno di essere recuperata in maniera autonoma dagli africani stessi. Anche se la carenza di risorse alimentari, di acqua e di beni materiali è davvero tanta l’uomo e la donna africani non è di “aiuti” che hanno bisogno, ma di potere liberamente sia circolare sia produrre sulla base dei bisogni interni e non delle esportazioni verso l’estero. Le regole dello sviluppo industriale e della globalizzazione non possono più condizionarne l’economia.
Non c’è nessun motivo per ritenere che la “ricchezza” occidentale, responsabile della grave crisi economica internazionale, sia migliore di quella africana. Chi sta meglio? Chi ha denaro o chi ha la capacità di affrontare la vita con “spirito tenace”? Per usare ancora le parole di Obama, che ha detto anche: “...sono stati coloro che hanno saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose, alcuni celebrati, ma più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il lungo, accidentato cammino verso la prosperità e la libertà. Per noi hanno messo in valigia quel poco che possedevano e hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita”.
Obama non ha dimenticato di rivolgersi alla “gente delle nazioni povere”, dopo avere affermato che chi arriva al potere attraverso la corruzione e la disonestà sta “dalla parte sbagliata della Storia.... perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con esso”.
Sia gli africani e le africane che scelgono di restare che quelli che partono, affrontando molti “accidenti” per mare e per terra mostrano di possedere spirito tenace e capacità di camminare lungo difficili selciati. Alla faccia di leggi che volendo limitare la circolazione di persone libere si illudono di determinare la Storia: di attribuirla a una parte del mondo e negarla all’altra. Nel grosso cambiamento in atto, l’Africa, non quella dei dittatori alleati coi colonizzatori, ma quella dei N.I.P. (Non Important Person) a cui Rita El Khayat dedica il suo libro, i poveri, le donne e tutti coloro “rimasti oscuri nel loro lavoro”, hanno una parte importante, imprevedibile. Speriamo che da loro possa arrivare un significato della vita umana più dignitoso e più lento.
Il senso della lentezza è il dono più bello che mi sono portata dall’Africa.
Il tempo africano è senza fretta, senza ansia, talmente tanto da apparire a un uomo come Sarkozy “senza storia”. Ma forse il segreto è nel fatto che, mentre gli europei possiedono molti strumenti per misurarlo, gli africani hanno, invece, tutto... il Tempo!
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