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Non chiamatele più quote rosa. Stiamo parlando di democrazia

Non chiamatele più quote rosa. Stiamo parlando di democrazia

Editoriale -

Bartolini Tiziana Sabato, 29/03/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2014

 Molta acqua è passata sotto i ponti da quando le chiamavamo quote rosa. Pensavamo che fosse necessario - ma anche sufficiente - chiedere un po’ di spazio nelle assemblee elettive. Le chiamavamo quote rosa perché l’idea di maneggiare il potere ci preoccupava e quindi un 20% ci sembrava rassicurante: potevamo esserci, ma senza eccessiva esposizione. Era insomma la richiesta di una partecipazione a responsabilità limitata. Abbiamo poi capito che quella strada non era adeguata rispetto all’ambizione di mettere in gioco, davvero e fino in fondo, saperi e competenze per modificare ordini di priorità o prospettive consolidate e considerate le uniche possibili. Con la scelta del 50e50 - sostenuta dalla lungimirante campagna dell’UDI che nel 2007 ha raccolto 120mila firme per una proposta di legge di iniziativa popolare - si è affrontato un dialogo alla pari con la politica: siamo la metà e così dobbiamo pensare la rappresentanza. L’abbiamo chiamata democrazia paritaria, definizione la cui densità ed enormità di significati ha spazzato via il resto. La condivisione di questa visione non è ancora sufficientemente ampia, neppure tra le donne. Ma la strada è aperta e il tempo ci darà ragione perché, semplicemente, è nel logico fluire delle cose. Intanto la bocciatura alla Camera dei Deputati degli emendamenti sulla rappresentanza di genere al testo della nuova legge elettorale è il simbolo delle resistenze di un sistema paralizzato che non sa dare risposte ad una questione politica che le donne hanno posto alla politica: non è più tollerabile per la metà della popolazione delegare all’altra metà le scelte del presente e del futuro, della qualità della vita e della salute, degli investimenti e dell’economia. Non è più tollerabile una democrazia incompiuta. Il fatto è che le guardie asserragliate nel ‘Palazzo’ non sono canute e incravattate. Quella che avevamo salutato come una delle novità delle ultime elezioni - un Parlamento rigenerato da un gran numero di giovani e donne - non è riuscita a sintonizzarsi su modulazioni di frequenza diverse dal passato. E hanno avuto la meglio le (solite, vecchie) logiche di cordata o di partito. Certamente non sfugge la peculiarità del contesto con i delicati equilibri e contrapposizioni, dall’accordo Renzi/Berlusconi all’accelerazione del nuovo governo. Ma non era illusorio sperare che la democrazia paritaria fosse esclusa dal gioco dei veti incrociati e di parte. Il capitolo si riapre al Senato e, pare, sarà anche presto chiuso. Ma questa vicenda - al di là dell’esito finale - ha già posto un altro grande tema: quello del ruolo delle elette, del senso del loro stare nelle istituzioni. Combattiamo una battaglia affinché non siano richieste, solo alle donne, speciali competenze e titoli. Solidarizziamo con loro se sono giudicate più per le “forme che per le riforme”. Ma ci aspettiamo un operare ‘come donne’ perché abbiamo investito le nostre energie per aprire la strada a tante e valide competenze femminili. Appunto: femminili, non neutre e non maschie. L’istanza del 50e50 è un atto politico perché è una assunzione di responsabilità reciproca, per chi la chiede e per chi ne fruisce, perché muove dalla necessità di portare nel sistema un cambio di passo. Questo è il contratto non scritto che noi donne, prima o poi, dovremo stipulare.




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