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Niente paura, solo attenzione

Niente paura, solo attenzione

intervista a una psicologa

Venerdi, 02/11/2012 - Niente paura, solo attenzione



Intervista a Maria Donata Ancona

(di Maria Teresa Trivisano)



Raggiungere l’integrazione sociale e lavorativa è uno degli obiettivi più difficili, perseguiti da chi vive una condizione di disabilità, ma una serie di progetti possono rendere questo percorso molto più semplice. Come? Ce lo spiega la Dirigente Responsabile dell’U.O. SISL dell’ASL di Martina Franca







Da un po’ di tempo Extra ha mostrato grande sensibilità verso svariate tematiche sociali: ha accolto la testimonianza di persone che hanno vissuto un ritorno alla vita, ha dato la parola ad associazioni che si battono per i diritti delle fasce più deboli e ha messo in risalto l’eccellenza professionale di figure che operano nel nostro paese. Fiumi di parole, dove il più delle volte ci si barcamenava tra un’emozione e l’altra, sempre in equilibrio per non affondare tra sentimenti troppo contrastanti. Due le mete da tenere a mente: integrazione e supporto psicologico. Sembra già difficile raggiungerne una, figuriamoci entrambe, soprattutto se ci si mette di mezzo una brusca tempesta, ma la sfida è proprio qui: chi si ferma è perduto, perché anche quando le acque sembrano più scure c’è sempre qualcuno disposto a cavalcare l’onda, controcorrente. L’Autorità sanitaria locale di Martina Franca da tantissimi anni ha reso proprio questo manuale di navigazione, avviando un progetto di integrazione al lavoro per i disabili. La dott.ssa Maria Donata Ancona, psicologa



e responsabile del Servizio di formazione di questi giovani ragazzi desiderosi di una realizzazione personale, ci illustra tutte le fasi di un percorso che va dalla valutazione delle competenze dell’individuo fino alla formulazione di veri e propri contratti di lavoro. Caratterizzata da una spiccata positività e gioia di vivere, sostiene l’importanza di un punto di riferimento per ognuno di noi e ci indica una strada possibile per superare le paure e coltivare i propri interessi: «sfruttate le vostre risorse e dedicatevi a tutto con passione e attenzione!».



Dott.ssa Ancona, c’è stata una motivazione in particolare che le ha fatto intraprendere la scelta di diventare psicologa?



«Sono stata sempre una persona molto sensibile e la scelta di intraprendere gli studi di psicologia è partita proprio dalla voglia di coltivare e approfondire questa sensibilità, che sicuramente costituisce un tratto importante della personalità di ognuno. Mi sono laureata alla Sapienza a Roma dove mi sono anche specializzata in psicoterapia cognitivo comportamentale e poi dove varie esperienze e collaborazioni sono tornata in Puglia: qui mi si è presentata l’occasione di poter lavorare all’interno dell’Asl e di riuscire a praticare la mia professione in maniera indipendente».



Ha studiato a Roma, ma ha deciso comunque di ritornare qui in Puglia: una scelta azzardata.



«Sì, io non ho mai avuto intenzione di rimanere a Roma, anche perché sono stata sempre una persona molto radicata nel mio paese e nelle mie origini, perciò nonostante fossi consapevole che qui al Sud e in particolar modo a Martina, non ci sarebbero state tante opportunità di lavoro e che comunque era ancora molto diffuso un certo pregiudizio riguardo alla figura dello psicologo, non ho mai esitato un istante, riguardo al mio ritorno a casa. Ho sempre avuto fiducia in quello che facevo, ci credevo davvero ed ero convinta che in un modo o nell’atro, avrei trovato il modo per dare vita alla mia passione e ai miei studi».



Riguardo al suo lavoro all’interno dell’Asl di Martina, lei da parecchi anni si occupa di un progetto molto importante.



«Quando sono tornata a Martina mi si è subito presentata la possibilità di lavorare all’interno dell’Asl e di partecipare a un progetto, finanziato dalla Regione, riguardo all’integrazione scolastica dei ragazzi disabili. Malgrado fosse un progetto non strutturato in un servizio ben organizzato e che potesse sembrare non molto dignitoso per un professionista, posso dire che non dimenticherò mai questa esperienza, perché si è rivelata fondamentale per la mia attività lavorativa. Non c’era una figura principale che coordinasse i lavori, perciò era tutto un gioco di squadra, nel quale erano coinvolte tante figure professionali che insieme si autogestivano e cercavano di dare sempre il meglio di sé. Nell’ambito di questa iniziativa abbiamo anche, approfondito la nostra conoscenza all’interno del mondo scolastico, stringendo relazioni e importanti collaborazioni con vari insegnanti. È chiaro che col passare del tempo, molti colleghi hanno trovato altre strade e c’è chi si è trasferito in altri paesi, ma lo spirito di questo lavoro non si è mai spento ed è andato evolvendosi».



In che senso è andato sviluppandosi?



«A seguito di una serie di cambiamenti, sia interni all’Asl che, come dicevo prima, relativi alla carriera professionale di ogni membro dell’equipe, siamo passati da un percorso volto all’integrazione scolastica, a un progetto di integrazione al lavoro per il ragazzo disabile. Abbiamo avviato, qui a Martina, le prime esperienze di alternanza scuola – lavoro presenti sul territorio, continuando a mantenere una buona collaborazione con gli istituti scolastici per avviare i ragazzi con delle disabilità a esperienze di formazione al lavoro, in modo tale da permettere loro di acquisire delle competenze, assumere un incarico e di conseguenza portarlo a termine. È necessario che tutti i ragazzi, le scuole, le famiglie, gli enti e le associazioni di volontariato, operino insieme, nell’obiettivo di introdurre questi giovani al lavoro e consentire una dignitosa integrazione sociale».



La parola ‘integrazione’ è fondamentale per un disabile, lo è ancora di più se si parla di lavoro. Com’è strutturato nello specifico, il vostro servizio?



«Noi offriamo un servizio chiamato “SISL” (Servizio Integrazione Sociale Lavorativa) che è strutturato all’interno del dipartimento di riabilitazione, quindi c’è prima un percorso riabilitativo che accompagna il ragazzo durante la sua crescita, poi c’è l’inserimento nel mondo sociale e lavorativo. Ovviamente, per svolgere tutto questo, vengono definite una serie di competenze affidate a vari profili professionali. Sono davvero tante le famiglie che si rivolgono a noi, infatti, attualmente abbiamo una banca dati che conta oltre 1500 utenti e occupandoci di inserimento lavorativo, i nostri ragazzi partono dai 18 anni in poi. Il primo passo da compiere sta nella valutazione dei bisogni e delle competenze di ciascuno, perciò viene fatta un’analisi precisa delle abilità e delle mansioni che il ragazzo può svolgere: per questa fase utilizziamo l’ICF che è un sistema di classificazione internazionale che valuta aspetti non solo legati alla patologia, ma anche a tutta la partecipazione alla vita sociale. Siamo l’unico ente pubblico nel Sud Italia, che ha adottato questo servizio a livello pioneristico e sperimentale, oltre ad altri enti privati. Dopodiché provvediamo a individuare una serie di imprese che possono accogliere il ragazzo, cercando di completare anche in questo caso, un vero e proprio profilo aziendale: un’anamnesi che valuta tutte le caratteristiche delle varie ditte, dalle mansioni all’ambiente e all’atmosfera, se il contesto non è abbastanza favorevole, evitiamo di introdurvi la figura candidata. Il nostro servizio condivide con la provincia tutte le aziende che sono implicate nella legge 68, quindi prima ci basiamo sul loro reclutamento e dopo stimiamo tutte quelle che richiedono spontaneamente delle figure lavorative. Inoltre consultiamo la legge 196 a proposito dei tirocini formativi in azienda per aumentare il profilo delle competenze e permettere una formazione direttamente sul campo di lavoro».



Oggi come non mai, la parola ‘lavoro’ sembra sempre più un’utopia, concorderà con me che questo progetto, a primo impatto, lasci un po’ la sensazione del paradosso.



«Sì, è una grande opportunità. Considerato il momento di crisi che viviamo, nel quale il lavoro è sempre più precario e instabile, grazie a questo servizio è come se andassimo controcorrente. La soddisfazione più grande si ha quando riusiamo a chiudere numerosi contratti di lavoro, anche a tempo indeterminato. L’Asl si fa carico di questo servizio, perché parte dall’idea che il lavoro produce salute e, in effetti, i nostri ragazzi quando iniziano a lavorare mettono da parte la loro condizione di disagio e acquistano un benessere totale: sono più spensierati, hanno meno ansie e preoccupazioni e poi hanno la possibilità di responsabilizzarsi e crescere. In tutto questo percorso l’Asl è sempre presente e si propone costantemente di valutare quali siano le reali possibilità per un disabile, perché può capitare che questi ragazzi presentino aspirazioni non propriamente adatte alle loro condizioni, perciò in quel caso cerchiamo di indirizzarli su altre possibili soluzioni alternative».



Quindi c’è un lavoro molto articolato che vede l’impiego di un grande staff?



«È molto bella questa parola, inizialmente eravamo tantissimi a collaborare per questo progetto e c’erano addirittura tre arie di intervento: l’aria aziende, l’aria utenti e l’aria programmi all’interno della quale operavano vari educatori per svolgere tutto il percorso di accompagnamento dei ragazzi. Adesso tutto questo personale si è ridotto notevolmente e siamo circa un terzo rispetto a prima, perché purtroppo anche noi stiamo facendo i conti con il blocco del turn over e delle assunzioni. Tuttavia, però, siamo un gruppo molto affiatato, lavoriamo a stretto contatto e questa forte intesa è un po’ lo spirito che ci invoglia ad andare avanti, nonostante le varie difficoltà».



Mi ha particolarmente colpito l’equivalenza che prima ha enunciato tra il lavoro e la salute, un binomio sul quale ultimamente, l’opinione pubblica appare un po’ divisa. La mancanza di una stabilità lavorativa può essere considerata una delle prime cause di malessere psicologico?



«Dal punto di vista della mia esperienza clinica, noto tanti casi di depressione, ansia e paura, dovuti, spesso, alla mancanza di un’occupazione lavorativa e di una stabilità che porti alla realizzazione personale. Anche per quanto riguarda l’attività con l’Asl, da noi arriva una larga fascia di utenza che presenta questo problema e io che sono responsabile del servizio di formazione, mi rendo conto che dietro queste paure c’è sempre una gran voglia di volare, una motivazione, un desiderio. Ovviamente ci sono varie problematiche e questa condizione di incertezza coinvolge soprattutto numerosi ragazzi, vittime, nella stragrande maggioranza dei casi, di attacchi di panico: è evidente che nel loro percorso di vita c’è un forte contrasto tra il bisogno di sganciarsi dalle dipendenze della famiglia e la paura di non farcela».



Per quanto riguarda le difficoltà dei più giovani, c’è qualche responsabilità da attribuire alle famiglie di oggi?



«Sono convinta che la famiglia cerchi di fare sempre il bene per i suoi figli: non c’è una responsabilità, ma c’è una storia delle famiglie. Mi capita di vedere molte persone che si assumono tutte le responsabilità in merito al disagio di un figlio, ma non è così, perché invece, loro rappresentano una grande risorsa di valori e sentimenti: è chiaro che un figlio porta l’imprinting dei suoi genitori, quindi diventa inevitabile che un modo di fare, un atteggiamento sbagliato o un’ansia personale possano costituire delle barriere per l’evoluzione del ragazzo, ma le famiglie hanno sempre delle intenzioni positive riguardo ai propri figli, e se commettono degli errori lo fanno senza volerlo. Per questo è importante che ci sia una figura di riferimento che porti queste famiglie a credere nelle proprie risorse. Penso che ognuno di noi abbia bisogno di sentire la vicinanza e il supporto di qualcuno, perché la solitudine genera sofferenza e inevitabilmente causa una sensazione di impotenza che soprattutto in questi tempi, può essere molto pericolosa. Chi crede di arroccarsi in maniera arrogante pensando di poter fare tutto da solo, sbaglia: c’è bisogno del confronto, perché ogni scambio è un arricchimento, diversamente c’è la morte e io ho imparato molto da tutte le persone che ho incontrato nella mia vita».



Come affronta la vita lo psicologo?



«Bella domanda! A volte quando si pensa allo psicologo, lo si considera come una figura onnipotente, un modello, ma è solo un’idea, perché io sono comunque una persona, una donna e una mamma. Anche se cerco di aiutare gli altri, sono molto fragile, sensibile e ho bisogno di tutto quello di cui hanno bisogno gli altri: l’amore per la famiglia, per mio figlio, a volte penso che sono io a dovergli sempre insegnare qualcosa, ma spesso si rivela il contrario; poi c’è il valore dell’amicizia e in questo caso posso contare su due amiche che considero come sorelle, tra cui la dott.ssa Braccioforte, sociologa che collabora con me per l’Asl».



Si è passati da un passato in cui dominavano educazioni repressive e molte severe a un presente nel quale, invece, l’eccesso di libertà assieme a orizzonti sempre più ampi ci ha allontanati da quella che veniva considerata la ‘norma’: lo psicologo tende ad assecondare questi cambiamenti o deve svolgere una funzione più regolatrice?



«La risposta sta nei valori che in passato erano molto più forti e radicati rispetto a ora. È vero che prima c’era un’educazione più ferrea e repressiva, ma col tempo è stata riconosciuta la carta dei diritti e anche i bambini sono riusciti a esprimere i propri punti di vista; adesso andiamo incontro a una società in cui si è diventati più egocentrici, si pensa di più alla carriera, assicurandosi che un figlio abbia tutti i bisogni economici, ma sottovalutando, invece, che può avere più bisogno di affetto e soprattutto di comunicazione. La causa di queste disposizioni aberranti e degenerative è in un deficit di valori e di comunicazione, in questi casi interviene la figura dello psicologo volto a ripristinare un equilibrio che porti alla ridefinizione di ruoli che spesso vengono sovvertiti. Una soluzione a tutto questo sta nell’attenzione. C’è un’antica storia che racconta di un uomo che si rivolge a un maestro spirituale per una massima di suprema saggezza, e il maestro, nonostante l’uomo si mostri insoddisfatto per la risposta ricevuta, gli ribadisce più volte la parola ‘attenzione’: è qui che dobbiamo soffermarci, l’augurio che faccio è di mettere in pratica sempre questa parola, sia quando ci dedichiamo con passione a qualcosa, sia nelle relazioni con gli altri, in modo da non sottovalutare mai quello che ci è intorno, ma da poterlo sempre valutare al meglio».

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