Niente crociate su RU486, una pillola non il demonio
Parliamo di bioetica - Sarebbe grave e irresponsabile che la RU486 diventasse oggetto di uno scontro ideologico tra chi è pro o contro la legge sull'aborto
Battaglia Luisella Lunedi, 12/10/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2009
L’annuncio del "via libera"all'utilizzo ospedaliero della RU486 - la pillola impiegata per l'aborto chimico nei primi due mesi di gravidanza - ha provocato, come era facile prevedere, aspre polemiche specialmente da parte di coloro che sono contrari all'aborto per ragioni di principio. Una posizione certo rispettabile e da molti condivisa ma che non dovrebbe, a mio avviso, influire in alcun modo sulle decisioni di tipo tecnico relative a tale problema.
Vediamo di riportare la questione ai suoi termini reali. Innanzitutto, autorizzare o meno la pillola non significa pronunciarsi sulla liceità etica dell'aborto ma semplicemente decidere su una modalità - farmacologica anziché chirurgica - concernente la sua attuazione, così come previsto dalla legge 194. Sappiamo che l'aborto è un peccato gravissimo per la Chiesa e che il Vaticano ha definito la pillola RU486 «un atto contro la vita» ma, occorre ribadirlo, l'aborto non è un «reato» per lo Stato italiano. Se e finché esiste una legge che prevede la possibilità di abortire entro certi limiti e a determinate condizioni, perché, ci si dovrebbe chiedere, obbligare una donna a usare la sola via chirurgica, indubbiamente più rischiosa e traumatica? Forte è il sospetto che si tratti di un atteggiamento punitivo che potrebbe condensarsi nella condanna: «Abortirai con dolore!».
In realtà, l'interruzione della gravidanza è un dramma e un lutto e, per chi lo avverte come tale, la pillola non può certo considerarsi un rimedio indolore, uno strumento di banalizzazione del problema angoscioso che si trova ad affrontare. Se, da un lato, è comprensibile il timore che l'aborto per via farmaceutica diventi un mezzo di contraccezione più facile ed efficace, dall'altro non sembra corretto, da parte dell'ortodossia cattolica, oltreché del rumoroso corteggio di atei devoti, prendere a pretesto la questione della pillola e le condizioni della sua sperimentazione per rimettere in discussione la legge 194. Sarebbe grave e irresponsabile che quella che è stata definita “la pillola della discordia” diventasse oggetto di uno scontro ideologico, come ai tempi del referendum, in cui ci si doveva schierare pro o contro la legge sull'aborto.
Ancora una volta, le eventuali ricadute negative, sul piano sociale, di un ritrovato scientifico non possono annullare i diritti di cittadinanza, rendendo illecito un mezzo idoneo al raggiungimento di un fine giuridicamente lecito. La somministrazione della pillola RU486 costituisce una tecnica alternativa all'intervento chirurgico: perché, dunque, demonizzarla e parlare, com'è stato fatto, di «crudele e ipocrita cultura di morte»?
Poiché la legge, approvata da una larghissima maggioranza degli italiani, non specifica quali metodi usare, ogni procedura, se validata e sottoposta ai previsti controlli - com'è appunto il caso della RU486, farmaco già utilizzato in Europa e compreso nell'elenco dei medicinali essenziali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che ne ha dichiarato la sicurezza definendone le linee guida - dovrebbe venire ammessa, soprattutto se più sicura per la salute psico-fisica della donna.
Non si vedono, in effetti, plausibili motivi per escludere una tecnica largamente usata nel mondo. Sarebbe sufficiente appellarsi al diritto alla salute, dichiarato fondamentale dall'articolo 32, della Costituzione italiana. Oggi, possiamo aggiungere, la tutela della persona riguarda la sua «integrità fisica e psichica», come afferma esplicitamente l'articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Un'indicazione, questa, che rinvia alla definizione di salute proposta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, e ormai universalmente accettata, come pieno «benessere fisico, psichico e sociale».
Garantire uno spazio pubblico per questo dibattito dovrebbe essere tra i compiti alti di una politica capace di accostarsi alla vita delle persone con la discrezione e il rispetto che essa merita. Un compito cruciale in un Paese, come il nostro, in cui è sempre più inascoltato il richiamo alla sobrietà e il confronto civile delle opinioni appare sopraffatto dal tumulto chiassoso dei banditori di improprie "moratorie".
“Siamo davvero sicuri – si è chiesta Eugenia Roccella – che un’adesione incondizionata alla tecno scienza porti davvero ad ampliare la sfera della libertà personale? A me pare una visione troppo ottimistica e acritica“. Non si deve trattare infatti in alcun modo di un’”adesione incondizionata”, ma semplicemente di quell’esercizio della libertà di scelta che dovrebbe essere garantita anche alle donne italiane, a meno di ritenere che, a differenza di quelle di altri paesi, abbiano bisogno di una particolare tutela. Riaffiora, nel fuoco delle polemiche, l’idea di uno stato paterno, se non di uno stato etico con la visione di una cittadina – la donna, ancora una volta eterna minorenne - incapace di assumere decisioni in modo autonomo.
In realtà, chi insiste sull’applicazione severa della legge, sull’importanza del ricovero, dimentica che ciò è nell’interesse stesso delle donne che devono essere adeguatamente informate su questo punto essenziale per la loro salute.
Che dire, infine, di chi definisce la RU486 come «un ulteriore passo in avanti nel percorso che tende a non far percepire la natura reale dell'aborto che è e rimane soppressione di una vita umana innocente?». Chi si occupa di bioetica sa bene che la questione tecnica riguardante il «come» abortire non può in alcun modo assorbire in sé quella etica riguardante la scelta tragica «se» abortire o meno. In altri termini, non è tanto importante per la coscienza morale decidere le modalità - farmaceutiche o chirurgiche - di un certo atto quanto affrontare la domanda ineludibile del «perché» compiere o no quell'atto. La liceità etica, lo si è ripetuto molte volte, non può essere confusa con la mera possibilità tecnica. Per questo ciascuno dovrebbe "laicamente" rivendicare la libertà, e quindi la responsabilità, delle sue scelte, le cui ragioni profonde risalgono al senso stesso che intende dare alla propria vita.
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