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Neuroni specchio ed empatia

Neuroni specchio ed empatia

Parliamo di bioetica - Ipotesi per capire le emozioni altrui attraverso meccanismi di natura essenzialmente motoria e neuronale

Fabbri Alessandra Lunedi, 20/06/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2011











Alessandra Fabbri



Negli ultimi vent’anni la ricerca nell’ambito delle neuroscienze ha condotto alla scoperta di due gruppi di neuroni: il primo gruppo, detto dei neuroni canonici, è legato a una visione di un oggetto e ci consente di prevederne le caratteristiche come peso, forma, dimensione, prima di averlo afferrato, dandoci la possibilità di calibrare anticipatamente la forza e la posizione della nostra mano per raggiungere il nostro scopo. Il secondo gruppo, detto dei neuroni specchio, è legato all’osservazione stessa di un’azione compiuta da un altro individuo. Questo tipo di neuroni ha la particolare caratteristica di far attivare nel cervello di un soggetto, che osserva una determinata azione compiuta da un altro soggetto, una serie di reazioni speculari a quelle che si attivano nel cervello dell’ individuo che sta compiendo l’azione: proprietà specchio.

Ma vediamo meglio di cosa si tratta, soffermandoci su una tesi particolarmente interessante proposta da Vittorio Gallese, uno tra gli scienziati italiani che hanno scoperto i neuroni specchio, secondo il quale alla base dell’empatia ci sarebbe un processo di “simulazione incarnata” vale a dire un meccanismo di natura essenzialmente motoria, molto antico dal punto di vista dell’evoluzione umana, caratterizzato da neuroni che agirebbero immediatamente prima di ogni elaborazione più propriamente cognitiva. L’osservazione dell’azione altrui induce automaticamente in modo obbligato la simulazione della stessa. Quando vedo qualcuno esprimere col proprio volto una data emozione questa percezione mi induce a comprenderne il significato emotivo.

L’emozione dell’altro è vista e compresa grazie a un meccanismo di simulazione che produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione. È, innanzitutto, la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire “empatica”.

Secondo i neuroscienziati, la reazione dei neuroni specchio, che si verifica quando un essere umano osserva un uomo o un animale compiere una determinata azione, varia a seconda che tale azione faccia parte di quello che alcuni studiosi chiamano “vocabolario degli atti” o “patrimonio motorio” o anche “repertorio comportamentale” di cui sarebbe dotato colui che vi assiste, sicché quanto più l’azione osservata rientra in tale repertorio, tanto più intensa ed estesa risulta la reazione neuronale. In altre parole, la reazione del meccanismo neuronale sembra essere in stretto rapporto con la capacità dell’individuo che osserva di riprodurre a sua volta l’azione che viene osservata. A mano a mano che l’altro compie un’azione che, diciamo così, si “allontana” dal repertorio di azioni che io posso compiere effettivamente, le quali, a loro volta, dipendono non solo dalla mia conformazione specie-specifica, ma anche dall’esperienza acquisita, si riduce la reazione speculare dei neuroni mirror e con essa la mia possibilità di comprendere ciò che l’altro sta facendo.

Queste considerazioni, sono assai problematiche perché non colgono quella che dovrebbe essere una differenza di senso tra un azione e l’altra, ma riducono tutto a una dimensione quantitativa.

Stando a ciò che abbiamo appreso dai neuroscienziati, infatti, la comprensione umana delle azioni altrui si fonderebbe sulla capacità (fisiologica e cognitiva) di individuare nell’altro delle somiglianze con il nostro modo di essere che rendono la sua alterità qualcosa di non così drasticamente “estraneo” da restare del tutto incomprensibile. L’empatia si fonderebbe così sulla capacità di riconoscere nell’alterità qualcosa di simile e di instaurare, in virtù di questa somiglianza, un contatto possibile.

Ma si può davvero considerare la differenza che corre ad esempio tra una gioia e un’altra, tra un dolore e un altro semplicemente come una differenza di grandezza tra aree diverse del cervello o una differenza di intensità elettrica tra stimoli nervosi? Si può considerare la natura e il significato di un’emozione sulla base della porzione di cervello che viene coinvolta di volta in volta? Come posso pensare che un gruppo di neuroni sia in grado di riconoscere, interpretare, comprendere, qualcosa che coinvolge tutto me stesso, con la mia esperienza, la mia affettività, e soprattutto con la mia storia unica ed irripetibile, tale da rendere ogni vissuto unico e irripetibile?

Un gruppo di neuroni non può certo determinare la mia storia unica e irripetibile: la scoperta dei neuroni specchio è importante, anche per i filosofi, perché tocca un punto centrale nel pensiero contemporaneo, la convinzione che il legame intersoggettivo e il riconoscimento dell’altro siano essenziali per l’individuo e per la società. Si è sviluppata una linea di ricerca sulla percezione (in particolare nell’ambito della fenomenologia francese) considerata non solo un insieme coordinato di dati visivi, uditivi, o altro, ma un vero e proprio dialogo con il mondo esterno in cui il corpo psico-fisico esprime, attraverso il suo movimento, intenzioni e preferenze e insieme conosce il mondo esplorandolo.

Il punto di incontro tra filosofia e neuroni specchio riguarda il loro carattere visuo motorio e il loro ruolo nelle percezioni di azione finalizzate.

È opportuno comunque precisare che non sono i neuroni specchio, ma è l’individuo a comprendere, a livello di esperienza, ciò che prova l’altro, anche grazie al meccanismo di simulazione sostenuto dai neuroni specchio, non dimenticando l’importante ruolo giocato dal contesto sociale e dalla situazione.

L’empatia non è un processo meccanico ma coinvolge tutta la persona nella sua corporeità e nelle sue emozioni: il processo empatico ci aiuta a scoprire l’altro, come dotato di individualità: è il riconoscimento dell’altro, della sua esperienza, dei suoi sentimenti, della sua gioia e del suo dolore; quindi l’empatia ha una rilevanza etica, che richiama la responsabilità.

È allora auspicabile un dialogo tra filosofi e neuroscienziati: non è possibile, per i filosofi, ignorare i risultati delle scienze sperimentali, così come è impossibile per i neuroscienziati non lavorare con concetti provenienti dalle diverse aree filosofiche. Che cos’è, osserva la filosofa Laura Boella, un esperimento di visualizzazione cerebrale sul razzismo implicito se non la messa alla prova di un concetto con una metodologia di misurazione di processi o attivazioni di determinate aree del cervello?

Filosofi e neuroscienziati, quindi sono chiamati a fronteggiare insieme, dai loro diversi punti di vista, i problemi della società contemporanea. La domanda sulla morale a cui tentano di rispondere le neuroscienze è relativa al tipo di funzionamento cerebrale che potrebbe determinare individui altruisti o aggressivi, ma ciò dipende anche e soprattutto dal proprio contesto e dalla propria vita biografica, insomma dalle relazioni. In sintesi, nessuna conoscenza dei meccanismi cerebrali potrà mai esonerare dall’interrogazione sulla responsabilità dei propri atti.







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