Giovedi, 27/01/2022 - “Chi fuor li maggior tui?” chiedeva Farinata degli Uberti a Dante Alighieri nel sesto girone dell’Inferno. Da chi proveniamo è una delle più fondamentali domande identitarie che caratterizza la nostra esistenza come esseri umani. E da quali elementi traiamo la nostra identità, il nostro essere parte di un mondo sociale, se non prima di tutto dal nostro nome? Il nome è ciò che ci identifica in qualunque rapporto con altre persone, è il primo indispensabile elemento della nostra identità personale; la prima informazione che inevitabilmente diamo al momento di conoscere una persona è il nostro nome e cognome. Ebbene, della nostra identità di italiani/e fa parte l’avere – salvo poche eccezioni – un unico cognome, quello di nostro padre. Curiosamente la legge prevede la possibilità di porre ai figli fino a tre nomi (prenomi), ma un solo cognome. O meglio, questo è ciò che la legge italiana prevedeva fino a cinque anni fa. O, meglio ancora, questo non era ciò che la legge italiana prevedeva, bensì ciò che dava per scontato: la legge italiana non prevedeva esplicitamente da nessuna parte che alla nascita debba essere imposto ai figli di persone coniugate il solo cognome del padre, lo considerava implicito, ovvio, talmente ovvio da non meritare una previsione di legge. Eppure qualunque giovane che si accinge a studiare giurisprudenza imparerà che, in uno stato democratico, tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito. Ebbene no. In questo caso – come in altri – le vie della legge sono infinite, e arrivano perfino dove esse stesse non hanno mai sentito la necessità di arrivare.
Ma andiamo con ordine. Per raccontare una storia – la storia del doppio cognome – bisogna partire dall’inizio ... continua a leggere la storia del doppio cognome su Filodiritto:
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