Venerdi, 02/03/2012 - Nell’ottobre del 1979 la deputata Maria Magnani Noya presentava alla Camera il primo progetto di legge sul Cognome dei coniugi e dei figli, volto a cambiare la patrilinearità che affligge la resistente società italiana. Nel giugno dello stesso anno pubblicavo il mio primo scritto sul tema, proponendo un progetto, credo il primo, per una legge sul doppio cognome in Italia, cui seguirono altre mie versioni più ampie.
Anche sul fronte parlamentare, nel tempo, fecero seguito altre proposte alla prima, fin qui tutte finite nelle pastoie del non discusso per niente, o del non discusso a sufficienza, o nel discusso in una delle Camere, o forse in uno stanzino delle stesse. Quanto alle ultime giacenti in Parlamento, non sappiamo se, con un sussulto di dignità nazionale, qualcosa prima della scadenza della legislatura avverrà. Dignità, sì, perché siamo, in materia, tra i più retrogradi Paesi d’Europa malgrado gli avvertimenti ricevuti e benché l’Italia abbia vincoli internazionali, che pure ha sottoscritti e non da ieri, con leggi apposite, ancora disattese.
Nel 1978, con Risoluzione n. 37 del 27 settembre, il Consiglio d’Europa proclama la necessità che i Paesi membri adottino legislazioni rispondenti al principio dell’uguaglianza dei coniugi, anche in tema di cognome dei figli. È solo il primo gradino di un processo, articolato mediante varie scansioni. Seguono infatti: la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), adottata dall’Assemblea Generale il 18.12.1979, in vigore internazionale dal 3.09.1981 e in vigore in Italia, tramite precedente ratifica, dal 10.07.1985; due Raccomandazioni del Consiglio d’Europa, la n. 1271 del 1995 e la n. 1362 del 1998; il Trattato di Lisbona , con atti finali del 13.12.2007 e infine la Ratifica italiana del Trattato, con Legge n. 130 del 2.08.2008.
Quanti anni fanno dal 1978 a oggi? Trentatré e passa, cosa da non credersi! Siamo convinte che il 34º compleanno della dimenticanza potrà festeggiarlo ancora, con vini vari e champagne, il patriarcato. Sì, perché quello è molto duro a morire. A tal proposito, va evidenziato come nei Paesi in cui si è provveduto a una riforma che prevedesse il cognome unico a scelta, i figli continuino in massima parte a ricevere il cognome del padre, o perché le donne non sono informate a sufficienza del mutamento introdotto, o perché si continua a percepire l’assenza del cognome paterno come assenza di una paternità riconosciuta e non come espressione di una scelta.
Limitiamoci all’ambito europeo e vediamo cosa ci è dato trovare nel Dossier di documenta-zione della Camera, cui fanno riferimento le diverse proposte presentate nella XVI legislatura, poi conglobate in una relazione unitaria.
Gli Stati presi in esame sono quattro: Francia, Germania, Regno unito e Spagna. Non è ben chiaro il perché si sia taciuto di legislazioni nordiche avanzate. Da una mia ricerca del 1980, pubblicata sul quotidiano L’Ora nel dicembre di quell’anno, emergeva che in Norvegia i coniugi avevano la possibilità di mantenere il proprio cognome, o di assumere quello dell’altro coniuge, determinando così un cognome comune. Nel caso in cui ciascuno avesse mantenuto il suo cognome, il figlio assumeva il cognome di uno dei due genitori, o, in assenza di un’indicazione congiunta, il solo cognome della madre.
Da altra ricerca, condotta da me proprio adesso, si apprende delle leggi di altri Paesi del Nord. In Svezia, sin dal 1983, il figlio assume un solo cognome, che è quello di entrambi i genitori se, sposandosi, essi hanno scelto quale cognome comune uno dei loro. In caso contrario, prende il cognome della sorella o fratello più giovane, nato dalla coppia dei suoi genitori. Ove sia invece un figlio primogenito, assume il cognome del padre o della madre, come indicato da entrambi in una comunicazione consensuale, fornita entro tre mesi dalla nascita. Qualora la comunicazione non ci sia, il primogenito della coppia assume il cognome della madre.
Esiste inoltre la possibilità, ove acquisisca il cognome indicato da entrambi i genitori, che gli sia dato, in anteposizione, anche il cognome dell’altro genitore in qualità di “cognome intermedio”, cioè di un cognome che il figlio o la figlia non potrà successivamente trasmettere al proprio coniuge o al proprio figlio o figlia. Insomma, una sorta di doppio cognome, di cui si trasmetterà solo il secondo.
In Finlandia, la legislazione è analoga, eccezion fatta, forse, per il cognome intermedio di cui sembrerebbe non esservi traccia.
Tre Paesi nordici, tre paesi in cui, qualora non venga espresso e notificato un accordo che porti a soluzioni diverse, figli e figlie assumono il cognome materno e non un altro. Peccato che nello Studio italiano cui si fa riferimento alla Camera, di questi tre Paesi non si scriva. Non se ne scrive esaurientemente nemmeno nel volume “Nominare per esistere: Nomi e Cognomi” (Università Ca’ Foscari, Venezia), dove lo specifico della dominanza materna rimane occultato. Spiace dover anche notare che nel testo si faccia riferimento per il Lussemburgo ancora al patronimico, benché la Legge del 23 dicembre 2005, da tempo in vigore, abbia totalmente modificato il sistema di attribuzione del o dei cognomi ai figli, affidandola alla scelta dei coniugi, o a un sorteggio in caso di disaccordo tra questi.
Torniamo adesso - mi si perdoni il continuo passaggio dall’io al noi, ma il mio è un “io” che riguarda più donne -, torniamo ora al Consiglio d’Europa, al Trattato di Lisbona alle ratifiche più volatili dell’etere e soffermiamoci su un’iniziativa specifica presa da un sito italiano nel 2011.
Il primo febbraio dello scorso anno, la Commissione europea protocollava la denuncia d'infrazione, presentata dai fondatori del sito “cognomematerno.it” contro lo Stato italiano, in merito alle norme relative alla trasmissione del cognome ai figli. Detto sito sponsorizza l’idea della libertà di scelta nella trasmissione di un cognome o dei cognomi di entrambi i genitori. Libertà che diventa tutta e solo di questi ultimi, se accoglie la possibilità di attribuire un solo cognome ai figli, interrompendo così unilateralmente - come oggi già accade - la relazione identitaria fondante, che, attraverso i cognomi, si stabilisce tra ogni nato, i genitori e le famiglie dei due. Un blog fondato di recente da me - cognomematernoitalia.blogspot.com - porta avanti l’idea del doppio cognome, per il quale ho attivamente operato fin dal 1979, con formulazioni di un possibile progetto di legge e con una causa civile contro lo Stato nel 1980, la prima in Italia sul tema.
Che il cognome debba essere singolo o doppio, in ogni caso l’infrazione esiste e una risposta alla denuncia inoltrata prima o poi dovrà essere data.
Nel frattempo, il Governo italiano sta per varare un Decreto Presidenziale, volto ad accogliere per via amministrativa le richieste di cambio di cognome, effettuabili dunque non alla nascita di un figlio ma dopo la consueta registrazione all’anagrafe con il solo cognome paterno.
Molto bene, qualcosa finalmente si muove sia pure in via solamente indiretta, ci verrebbe spontaneo pensare, ma… c’è un ma, che non è di scarso rilievo.
Nel Decreto di Modifiche allo Stato Civile 24/02/2012, che attende la firma del Presidente della Repubblica, troviamo al punto 1 che: “chiunque potrà chiedere di aggiungere il cognome materno a quello paterno” e al punto 2 : “Le donne divorziate o vedove potranno aggiungere il cognome del nuovo marito ai propri figli”.
No, un momento: ma perché il figlio dovrebbe ritrovarsi il nome del patrigno e non quello della propria madre, che potrebbe esser dato anche i nuovi figli nati dal successivo matrimonio? I cognomi di due uomini e nessuno della donna, che peraltro i figli, benché si tenda stranamente a dimenticarlo, li fa?
Ci sono state forse richieste in tal senso? Se così fosse, deriverebbero da scarsa consapevolezza di sé delle donne che eventualmente le avanzano e non certo da un’evoluzione del costume sociale, che occorre invece promuovere e incoraggiare.
Di conseguenza, poniamo la seguente domanda: nell’ambito di un’applicazione degli obblighi internazionali contratti - nonché di adeguamento ai principi della Carta Costituzionale che esprimono criteri di uguaglianza - non dovrebbe l’azione del Governo mirare a indirizzare uomini e donne verso una reale parità di diritti (quindi verso il cognome materno e paterno dei figli), come succede per altre questioni che abbiano un rilievo non solamente privato ma anche pubblico (pensiamo all’integrazione e all’istruzione), invece di esser volta a varare modifiche nel segno del nascondimento delle donne?
Il testo del presente articolo sarà inviato a breve ai Presidenti della Repubblica, delle Camere e del Consiglio,nonché a Ministre e Ministri competenti per il tema trattato.
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