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Nel bosco sacro della parola

Nel bosco sacro della parola

Poesia/Lidia Are Caverni - Poesie dalle sonorità classiche, piene del respiro notturno della natura

Benassi Luca Domenica, 24/07/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2011

Lo stile non è altro che il modo con il quale la mano impugna lo stilo, in tempi moderni la penna. Ognuno lo fa in modo diverso, a dispetto degli sforzi di insegnanti che, nel passato, ad una penna tenuta male opponevano la bacchetta. Lo stile è ciò che rende chi scrive immediatamente riconoscibile da chi legge, senza necessariamente ricorrere al nome scritto in copertina. Nella poesia italiana contemporanea, dove allo stile si preferisce la serialità di scritture conformi al giudizio di critici ed editori dominanti, la figura di Lidia Are Caverni brilla per una precisa riconoscibilità del verso, nonostante il ricorso ad una liricità che si abbevera a grandi sorsate alla tradizione. Si tratta di testi dalle sonorità classiche, sontuose e brillanti, ottenute dall’abile sfruttamento degli strumenti della retorica, senza necessariamente utilizzare la metrica, ma preferendo in ogni caso una misura dispari del verso. Ne emergono poesie compatte, “rettangoli di versi [che] costellano la pagina bianca” per usare la felice espressione di Giuseppe Panella, nei quali la natura ha un posto di primo piano. Fra fruscii sommessi, schiocchi, colori e ombre tra la nubi e le fronde di un bosco, la Caverni rivive in ogni pagina lo stupore e l’epifania naturalistica, in una dimensione all’apparenza elegiaca e memoriale. All’apparenza, perché la poetessa coglie sempre nella natura l’occasione per una riflessione (dolorosamente) esistenziale, basata sulla vita quotidiana. Ecco allora una natura a tratti leopardianamente discosta e assente, notturna, ossificata come un deposito di fossili dai quali trarre l’osservazione di dolori e passioni ormai calcificati nel ricordo. La Caverni abita e riabita la foresta sacra del proprio esistere, alla ricerca dei porti e delle radure nei quali sostare in equilibro fra un montaliano “male di vivere” e una consapevolezza umana e letteraria che rasenta una compiuta felicità.

Lidia Are Caverni, nata a Olbia, risiede a Mestre. Ha pubblicato 21 libri, di cui 13 di poesia e 7 di narrativa più un volumetto di considerazioni pedagogiche sul linguaggio dei bambini della scuola elementare. Svolge attività di formazione di lettura e scrittura nelle scuole. Collabora con diverse testate cartacee e on-line. Fra gli altri si sono occupati di lei: Giorgio Linguaglossa, Walter Nesti, Pietro Civitareale, Giuseppe Panella, Anna Maria Robustelli.



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Danza se vuoi alla luna danzavano

anche i conigli nelle notti d’estate

fra le radure dell’erba ora sorge l’alba

furtivo potrai vedere il mio volto il pallido

emergere dal sonno parleranno altre

parole tese nell’abbandono vedrai come

il giorno splende chiuso nel suo chiarore

il suo affacciarsi di rosso fuoco fra i tetti

i canali i passi che cauti solcano la via

gli uccelli che cantano il silenzio.





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Avevamo smarrito ce lo avevano detto

una volta l’incanto del bosco le canzoni

ritrovate di uccelli il sorgere del sole

l’alba quieta fuggitiva lungo il pendio

dietro le cime dei monti uno sfolgorio

di luci e ombra che rallegravano il cuore

a est si vedeva la luce incatenata all’ultimo

spicchio di luna perle si diffondevano

sui rami sui fili d’erba bocche di rugiada

nelle fresche radure.





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Sul mare tramonta la luna altri

raggi brilleranno di fulgori i pesci

cercano quiete addormentati nel breve

sonno presto i fondali fremeranno

di vita non serve cercare le cavità

sommerse le montagne che aguzze

si ergono aprendo infinite voragini

vallate dove bisbigli formano parole

che non potrai udire fatte solo d’ombra

che le stelle marine trasportano

fino al tuo cuore.





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Sapeva di grano il tuo sorriso

un sapore dolce che la saliva

mutava eravamo ogni volta pellegrini

d’estate come fosse la prima volta

la lenta carezza lungo i fianchi

che ancora non diceva desiderio

il papavero rosso guardava schermaglie

il discendere della sera tra il tepore

dell’erba tenera come una culla.





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