- Un progetto di Sonia Lenzi, Ritratti dell’ultimo ritratto, è diventato un libro e una mostra. L'autrice spiega l’idea e le emozioni suscitate dall’andare per cimiteri
Flavia Matitti Sabato, 27/12/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2015
Quale foto metto sul documento d’identità? E sul mio profilo Facebook? Sono domande comuni, frequenti, mentre è raro chiedersi quale foto si vorrebbe sulla propria tomba. Certo, in altri Paesi non c’è quest’abitudine, ma in Italia è tuttora molto diffusa la tradizione, antichissima, di porre sul sepolcro il ritratto del defunto, ritratto che di solito, ormai, è affidato alla fotografia. E proprio a una fotografa, Sonia Lenzi, bolognese, va il merito di aver indagato questo tema scomodo, affrontandolo in un’ottica originale, che coniuga la ricerca fotografica all’interesse per le questioni di genere.
A Bologna Sonia Lenzi si è diplomata all’Accademia di Belle Arti e laureata all’Università, prima in Filosofia e poi in Giurisprudenza. Tra il 2011 e il 2013, con diverse esperienze e mostre collettive e personali alle spalle, si è recata in cinque cimiteri monumentali italiani (la Certosa di Bologna, Staglieno a Genova, il Verano a Roma, il Cimitero Monumentale di Milano e il Cimitero di Poggioreale a Napoli) e si è concentrata sui ritratti fotografici femminili posti sulle tombe. I suoi ritratti riguardano quindi unicamente le donne, donne di cui non si sa nulla, neppure se siano state loro a scegliere di essere ricordate giovani o anziane, sorridenti o austere.
Ha preso corpo così il progetto intitolato Ritratti dell’ultimo ritratto, divenuto nel 2013 un libro d’artista, pubblicato in edizione limitata dall’editore di Ravenna Danilo Montanari. Le fotografie sono state esposte in varie occasioni e di recente sono state presentate a Londra in una personale organizzata nell’ambito del festival internazionale di fotografia Photomonth East London (ottobre-novembre 2014), nei suggestivi spazi della chiesa St. John on Bethnal Green, progettata dal celebre architetto John Soane.
Sonia, come è nata l’idea di questo progetto?
Il progetto è nato dall’idea di una mostra che avevo concepito per uno spazio inconsueto, una piccola chiesa romanica sconsacrata che si trova a Novafeltria, nell’entroterra di Rimini, la chiesa di Santa Marina. Quindi è stato forse quello spazio a darmi una prima suggestione. Un dato autobiografico, la ripetuta insistenza da parte di mia nonna sul tema della fotografia da apporre sulla tomba, attraverso la quale essere ricordata, ha avviato poi una riflessione ulteriore che mi ha portato a ricercare altre immagini e altri legami. Ho infatti ricreato un dialogo immaginario tra donne, ruotando attorno alla scelta del ritratto.
Come si è svolto il lavoro? Davanti a un’infinità di tombe e di ritratti come hai fatto a scegliere quali fotografare?
Prima di tutto ho dovuto pensare a quali cimiteri monumentali inserire nella ricerca e poi ho dovuto richiedere le autorizzazioni. Ho passato almeno un giorno all’interno di ciascun cimitero a osservare le tombe e le fotografie. Anche questa è stata un’esperienza relazionale importante, con i morti e la morte, in un certo senso, perché in alcuni casi, come a Milano, nel cui cimitero è consentito fotografare solo nel giorno di chiusura, mi sono trovata da sola a girare per ore in uno spazio deserto, dove appunto non c’era anima viva. Le foto che si trovano sulle tombe sono solitamente scelte con cura o forse sono le uniche recenti, ma in ogni caso esplicitano un ricordo, un legame con chi le ha scelte. Nel libro, che si presenta come una piccola scatola in legno contenente schede sfuse, ho utilizzato questo materiale come fossero foto trouvée, attorno alle quali ho costruito delle storie, delle relazioni immaginarie tra le donne defunte e le donne che ho immaginato avessero scelto le loro fotografie e quindi la loro immagine pubblica, in un certo senso. Il legame tra fotografie e testo è pertanto molto forte. Le donne si sono lasciate raccontare da altre donne. Di solito, invece, sono gli uomini a raccontare le donne o comunque è la cultura dominante, spesso neutra, che parla.
E in che modo, invece, hai coinvolto il pubblico?
Dato che ho voluto proporre un modello virtuoso dove sono le altre donne a parlare delle donne e a ripensare le loro relazioni, mi piace presentarlo in modo performativo, coinvolgendo altre donne nella lettura e soprattutto nella ricostruzione di proprie relazioni, personali o politiche.
La riflessione sul legame tra fotografia e morte che fa Roland Barthes nel suo celebre saggio La camera chiara ha influito su questo lavoro?
Certo, La camera chiara è un testo fondamentale e che si presta a diverse chiavi di lettura. L’essenza della fotografia è la morte, l’istante imbalsamato, per Roland Barthes. Questo concetto ha un grande fascino.
E tu come vorresti essere ricordata? Quale ritratto sceglieresti?
Un’immagine ambigua, un po’ dissacrante forse, per il contesto, perché è un nudo, scattato da un’altra fotografa, quando aspettavo la mia secondogenita, anche se non si vedeva ancora. Una plurimamma che si ribella all’iconografia tradizionale della donna, della mamma e della tomba.
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