Poesia / Ginevra Brandi - Abbandono, tradimento e ricordi si intrecciano in versi densi d’amore e rabbia
Benassi Luca Lunedi, 12/10/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2009
Come la ninfa Eco, perdutamente innamorata di Narciso, si consuma costretta a ripetere se stessa nelle sue ultime sillabe pronunciate e perdute nel vento, così le poesie di Disincanto, una breve sequenza di testi inediti di Ginevra Brandi, ruotano intorno all’asse dell’abbandono, del tradimento, dell’amore perduto; un amore che si ripete nel suo negarsi aprendo ferite, improvvise lacerazioni del ricordo, profezie dannate (“ridicoli presagi e gli aùguri che tacciono per viltà”), disertate dalla speranza e dalla passione, come l’immagine di un Narciso riflesso nell’acqua che si trasforma nella condanna di una ripetizione sterile: “Io ogni giorno più magra/ in un delirio d’amore/ che non esiste più”. Si tratta di un amore fra donne, una delle quali sposata, che abbandona l’amante poetessa per rimanere con il marito. Ne scaturisce una frantumazione, una rabbia presto calcificata in linguaggio, che finisce per travolgere il passato, sbarrando il passo al ricordo e al rimpianto, trasformando l’amata in carnefice di senso: “Ti volevo regina e eternità/ ti sei fatta amante e boia/ per passione e per la mia bellezza”. Tale metamorfosi muta segno all’amore, lo polarizza in negativo, trasforma l’incanto nel suo opposto, nel disincanto. Il titolo di questa piccola, quanto densa raccolta, racchiude in sé un proposito antilirico, di negazione del ‘canto’ come forma codificata dell’esaltazione del sentimento. Si potrebbe pensare all’invettiva, nei tratti maggiormente dominati da un dolore venato di rabbia, dove a volte la versificazione si sgrana per la tensione emotiva, e invece è l’antiliricità di versi secchi e puntiti, lavorati come punte di frecce al tornio di una poesia plasmata con perizia, a colpire in pieno petto chi si accosta a questi testi. Ecco una versificazione capace di toccare gli estremi del verso lungo, narrativo, e di quello brevissimo composto da una sola brillante parola, attraverso un andamento sinuoso, ritmato senza affanni ma ostinatamente contrario alla misura di endecasillabi o settenari. È una metrica frastagliata, in più punti rocciosa, che si impone con un effetto di eco nella mente di chi legge. Questa poesia ha una sua memorabilità – che è ciò che più manca ai versi contemporanei – una sua icasticità dal sapore sacro, orientale, che sfugge da una dimensione ‘confessionale’ per tendere invece a quel luogo, infero e celeste insieme, dove anima e corpo sono cosa sola. L’anima (dis)incantata precipita nel corpo disertato dall’amata e questo implode nel verso, fonde il linguaggio in poesia, con un’incandescenza naturale e dolorosa.
Una volta, ad un giovane che chiedeva cosa fosse necessario per scrivere buona poesia, Umberto Saba suggerì di “procurarsi un grande amore o un grande dolore”. Non vi è dubbio che Ginevra Brandi ha attraversato entrambi, con il corpo e lo spirito.
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