Dalla viva voce di - Il dire e il fare delle donne nella lotta alle mafie
Rosa Frammartino Giovedi, 29/07/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2010
Nadia Furnari, da anni ha scelto di mettere al servizio della legalità e dell’antimafia le sue energie. Tutte le sue passioni, anche quelle più personali, tra cui il suo lavoro di consulente informatico, vengono “dopo”. Dopo l’impegno per la ricerca della piena verità su stragi come quella di Ustica e su morti che aspettano giustizia, come quella di Sandro Marcucci o quella di Ignazio Aloisi, per il quale da anni si attende il riconoscimento di vittima di mafia pur se ciò risulta ormai innegabile. E, ancora, vengono dopo l’impegno al fianco di Piera Aiello che, dopo la morte di Paolo Borsellino e della cognata Rita Atria, ha rifiutato l’idea di vivere schiacciata dal fantasma della solitudine e insieme all’ass.ne “Rita Atria”, di cui adesso è presidente, ha continuato la sua lotta contro la mafia. Ma l’impegno di Nadia Furnari ha radici antiche; in una vocazione all’esercizio di cittadinanza da sempre praticata dalla madre, consapevole protagonista di lotte operaie e per il rispetto della legalità. Una passione civile che Nadia esprime già nel movimento studentesco degli anni 90 e si rafforza con l’associazione “Rita Atria” con un’attività, mai interrotta, che la vede in prima linea contro le tante forme di ingiustizia, prevaricazione e discriminazioni di genere.
Come nasce l’Associazione “Rita Atria”?
Nasce nel 1994 con l’aiuto di un piccolo gruppo di amici e amiche che con gli anni diventano sempre più numerosi; oggi ci sono punti di coordinamento e di progettazione in diverse regioni d’Italia. Con l’associazione realizzo il desiderio di lottare per i diritti umani, di combattere le ingiustizie nelle più disparate forme, di contrastare la tendenza che spinge la società a dimenticare fatti e persone, vittime e carnefici. Nel tentativo di sedare il dolore, si finisce per cancellare anche il sacrificio di chi è rimasto vittima di una scelta di responsabilità verso la società. Gli anni passano e, sotto il peso delle inquietudini quotidiane, spesso ci si scorda di chi ha pagato con la vita una scelta di rispetto delle regole e di coerenza con i principi della democrazia.
Lo Stato protegge i “suoi testimoni”?
I morti vanno ricordati e protetti nel nostro cuore, ma anche i “non morti”, i “sopravvissuti”, hanno diritto a mantenere occupato un posto importante della nostra coscienza, a pretendere un’attenzione che ci spinga a contribuire a “pagare” il debito con i testimoni di giustizia che, per dovere di cittadinanza, hanno compromesso la qualità della propria vita e della propria famiglia conquistando il diritto ad essere protetti dalla società e dalle istituzioni. Cosa che, purtroppo, non sempre accade. Accade, invece, che lo Stato, con il trascorrere del tempo, pensi che la protezione non sia più necessaria. Lo Stato sbaglia perché la mafia non dimentica.
Com’è la vita di chi “fa antimafia”?
E’ caotica, faticosa, costellata da pochi successi e tante sconfitte. Ma è sempre gioiosa. Una gioia che si alimenta dell’attenzione e dell’emozione che si sente nell’aria e che leggo negli occhi di ragazze e ragazzi quando racconto storie, a volte, difficili da capire, perché spesso lontane dalla loro esperienza. Storie che suscitano emozioni e aprono il cuore alla speranza che l’antimafia possano farla anche loro, con i gesti quotidiani e senza necessità di eroismi. Mi piace testimoniare che l’impegno nell’antimafia può essere vissuto con gioia.
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